«Esistono già due volumi pubblicati di 
            questo Shakespear che si potrebbero scambiare per delle opere 
            della fiera, fatte duecento anni fa. Seguiranno altri cinque volumi. 
            Nutrite un odio adeguatamente forte contro questo sfrontato 
            imbecille?»
            
            
            (Voltaire, Lettera a Charles Augustin 
            Feriol, conte d’Argental, 19 luglio 1776)
            
            
             
            
            
             
            
            
            Nella stessa lettera Voltaire non può che dolersi di se stesso: «e 
            per colmo di disgrazia e di orrore sono stato io che un tempo ho 
            parlato per primo di questo Shakespear; sono io che un tempo ho 
            mostrato ai Francesi alcune perle che avevo trovato nel suo enorme 
            letamaio» (Ibid.).
            
            
            E’ il primo che lo cita in Francia, intorno al 1730, subito 
            definendo l’atteggiamento fondamentale dei francesi: grande barbara 
            energia di codesto irregolare di talento. Quarant’anni dopo, sempre 
            Voltaire, spaventato dal successo di W. S., spostò il peso del 
            giudizio dalla positività dell’energia sorgiva alla imperdonabilità 
            della mancanza di regole e misura. Quando l’estetica è tutt’uno con 
            la politica: «Per Voltaire, per l’Académie, per gli organi ufficiali 
            della Comédie Française, per la stampa e per il pubblico colto le 
            regole e il razionalismo erano la Francia stessa» (M. 
            Fazio, Il mito di Shakespeare e il teatro romantico, Roma 
            1992)
            
            
             
            
            
            La prima traduzione di Shakespare (1776-1783) è di 
            Letoruneur: «una parodia», la definì Victor Hugo, e aveva 
            ragione: nessuna fedeltà né al testo né allo stile. Non piacque 
            neppure a Voltaire: «sono adirato con un tale Letourneur, che dicono 
            sia segretario della biblioteca e che non mi pare un segretario del 
            buon gusto» (Voltaire, letttera a Charles Augustin Feriol, conte 
            d’Argental, 19 luglio 1776)
            
            
             
            
            
            
            
            L’anatema di Voltaire dura fino agli adattamenti di Jean-Francois 
            Ducis (1733-1816), che riscrisse Amleto (1769), 
            Romeo e Giulietta (1772), Re Lear (1783),
            Re Giovanni (1791) e Otello (1792).
            
            
            Si tratta di riscritture per la scena a partire dalla pessima 
            traduzione di Letoruneur con drastica semplificazione neoclassica 
            delle trame e della psicologia dei personaggi. Shakespeare arriva in 
            scena dunque edulcoratissimo, parla in alessandrini con la rima 
            baciata e altamente gnomici: roba da ministeri della pubblica 
            istruzione tutt’oggi.
            
            
            Però furono l’occasione per scatenare l’arte attoriale di Talma, 
            il cui talento vagheggino e melanconico trovi più volte descritto 
            sia nei Ricordi d’egotismo (1832) di 
            Stendhal che nelle Memorie d’oltretomba di
            Chateaubriand. 
            
            
            «Talma recitava gli alessandrini di Ducis come se fossero prosa, 
            spezzando la cesura simmetrica dl verso per restituirla al senso. 
            Faceva della pantomima una delle sue principali risorse, mettendo la 
            sua recitazione muta, il linguaggio e dei gesti, interamente al 
            servizio della capacità evocativa…» (M. 
            Fazio, Il mito di Shakespeare e il teatro romantico, Roma 
            1992).