«Per molti anni, e forse per questi
suoi difetti appunto, il Mercante di Venezia è stato il
cavallo di battaglia di alcuni attori di grido, ciò che il
Trillo del diavolo era per i violinisti. Sia notato di
passaggio che le opere di Shakespeare di cui a preferenze d’altre si
servono attori e registi per i loro fini personali, sono le peggiori
di tutte, come questo Mercante di Venezia, come il
Sogno di una notte di mezza estate, come lo stesso
Otello.
(…)
Shakespeare è uno scrittore barocco,
un autore rococò, un artista arricciato e buccolato, un poeta con la
permanente; e si ricredano immediatamente coloro che queste lodi
scambiassero per biasimi, e sono abituati a vedere in Shakespeare
soltanto il «verace dipintore di caratteri». Ma al contatto di questa
grazia, di questa arricciatura, di questa onda arrotolata col ferro
caldo, si rivela in pieno tutta la falsità dell’interprete che per
imitare questa divina artificiosità, s0ingoffa in una vana e assurda
agitazione.
Tale ci è apparso Memo Benassi
nella parte di Shylock (…) quel capriccioso squilibrio della voce,
quei falsetti, quei suoni a sega, quegli improvvisi «glissandi» di
sillabe, quei balbettamenti, quei pargoleggiamenti; e quei movimenti
insensati, quelle mosse dispettosette, quel palpitare delle mani come
foglie morte di platano; quei gesti da sensitiva estetizzante ripresi
a Eleonora Duse, alla quale magari si potevano passare, non
fosse che perché era donna.»
[7 maggio 1938]
(A. Savinio, Palchetti romani,
Milano 1982)