HAMM -
Sicuro che sono al centro?
CLOV -
Adesso misuro.
HAMM - Pres’a
poco! Press’a poco!
CLOV - Ecco.
HAMM - Sono
press’a poco al centro?
(S. Beckett,
Finale di partita)
«Un barbone,
di cui stimo le tare e lo squilibrio, e che da anni dorme per
strada, l’altro giorno mi ha detto: “Sono libero all’ultimo
stadio”.»
(E. M.
Cioran, Quaderni. 1957-1972, Milano 2001)
Pirandello cita Amleto nel
Fu Mattia Pascal, capitolo XII, “L’occhio di Papiano”.
Come gli accade spesso, se ne compiace pateticamente. Non avendo
molto da dire sull’autore e sul romanzo, citeremo per bene il
brano:
- La
tragedia d’Oreste in un teatrino di marionette! - venne ad
annunziarmi il signor Anselmo Paleari. - Marionette automatiche,
di nuova invenzione. Stasera, alle ore otto e mezzo, in via dei
Prefetti, numero cinquantaquattro. Sarebbe da andarci, signor Meis.
- La
tragedia d’Oreste?
- Già!
D’après Sophocle, dice il manifestino. Sarà l’Elettra.
Ora senta un po, che bizzarria mi viene in mente! Se, nel momento
culminante, proprio quando la marionetta che rappresenta Oreste è
per vendicare la morte del padre sopra Egisto e la madre, si
facesse uno strappo nel cielo di carta del teatrino, che
avverrebbe? Dica lei.
- Non
saprei, - risposi, stringendomi ne le spalle.
- Ma è
facilissimo, signor Meis! Oreste rimarrebbe terribilmente
sconcertato da quel buco nel cielo.
- E
perché?
- Mi
lasci dire. Oreste sentirebbe ancora gl’impulsi della vendetta,
vorrebbe seguirli con smaniosa passione, ma gli occhi, sul punto,
gli andrebbero lì a quello strappo, donde ora ogni sorta di mali
influssi penetrerebbero nella scena, e si sentirebbe cader le
braccia. Oreste, insomma, diventerebbe Amleto. Tutta la
differenza, signor Meis, fra la tragedia antica e la moderna
consiste in ciò, creda pure: in un buco nel cielo di carta.
E se ne
andò, ciabattando.
(…)
L’immagine della marionetta d’Oreste sconcertata dal buco nel
cielo mi rimase tuttavia un pezzo nella mente. A un certo punto:
«Beate le marionette,» sospirai, «su le cui teste di legno il
finto cielo si conserva senza strappi! Non perplessità angosciose,
né ritegni, né intoppi, né ombre, né pietà: nulla! E possono
attendere bravamente e prender gusto alla loro commedia e amare e
tener se stesse in considerazione e in pregio, senza soffrir mai
vertigini o capogiri, poiché per la loro statura e per le loro
azioni quel cielo è un tetto proporzionato…»
Eppure all’inizio Amleto
corregge Orazio per non aver colto con sufficiente aplomb
l’apparizione dello Spettro, la qui straordinarietà va del tutto
d’accordo con un mondo che si scentra nell’infinito del cosmo
copernicano («ORAZIO - Dio, che strano prodigio! - AMLETO : E
allora dagli il benvenuto, come si fa con gli stranieri. Vi sono
più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante non ne sogni la
tua filosofia.» – Atto I, sc. 5).
E’ Pirandello che soffre di
vertigini. Amleto, all’opposto dei Sei personaggi in cerca
d’autore che implorano per entrare nella storia,
vorrebbe solo USCIRNE… e così Ofelia e Laerte, tutt’e tre giovani
obbligati a un centro che non è loro. - E’ la cosa che capisce e
che concede al suo Amleto Laforgue: tutto pur
di non stare lì, e quindi Parigi, Wittenberg, follie finte,
follie vere, suicidi… - Certo, ahimè, la Danimarca shakespeariana
è come la Svizzera del povero Strindberg: «non è una catena
di ferro, che si possa spezzare, ma gomma che si allunga» (A.
Strindberg, Arringa di un pazzo); così anche Amleto
«vorrebbe ripartire. Ma non può farlo. Tutti lo trascinano nella
politica» (J. Kott, Shakespeare nostro contemporaneo,
Milano 2006).
E qui Pirandello potrebbe dire:
e io cos’ho scritto per tutta la vita?