«Gli Amleto per la massa non sono
di alcuna utilità; non le danno nulla, non la possono condurre da
nessuna parte, perché essi stessi non vanno da nessuna parte»; «gli
Amleto non trovano nulla, non inventano nulla e non lasciano nulla
dietro di sé, se non l’impronta della propria personalità
individuale, non lasciano nulla di utile» (I. Turgenev, Amleto
e Don Chisciotte, Genova 2004). Netta dunque la preferenza
dell’autore di Padri e figli al generoso assalitore di
mulini a vento. La parola «utile» applicata alla letteratura non può
non far venire in mente un bel grumo di cose novecentesche e, benché
del tutto ignare all’innocente Turgenev, terribili.
Nel saggio, in verità Turgenev
pare non conoscere benissimo né il capolavoro di Cervantes né quello
di Shakespeare. A un certo punto scrive che l’esperto mondiale di
letteratura cavalleresca Don Chisciotte «sa a malapena leggere e
scrivere», quando si sa anche senza aver neppure sfogliato il libro
che don Chisciotte, come il compagno segreto, leggeva
troppo per il suo piccolo cervello.
A Turgenev Don Chisciotte piace
perché è un ottimista sempre in marcia, sempre impegnato a vivere
nel migliore dei mondi possibili, mentre Amleto è almeno ogni tanto
assolutamente certo di essere finito nel peggiore. Da ciò una
diversa attitudine a una vita disciplinatamente fattiva.
Sempre a riprova di uno strano
fraintendimento del testo, Turgenev arriva a scrivere che don
Chisciotte, benché capisca «poco di poesia», il che – e qui tutti
d’accordo – «non è un gran male», «capisce però le esigenze della
vita reale del nostro tempo» (I. S. Turgenev, lettera a A. V.
Družinin, 30 ottobre [11 novembre] 1856); il che ci conforta nel
sospetto che dedicarsi alle «esigenze della vita reale» sia per lo
più una forma eminente di donchisciottismo.
Lo giustifica il curatore della
versione italiana: a Turgenev interessano non i testi ma gli
archetipi, e dunque l’antitesi eterna tra due tipi ideali. Da
ciò una serie di deroghe alla fedeltà testuale dove questa intralcia
«il processo logico del ragionamento» (M. A. Curletto, intr. a:
I. Turgenev, Amleto e Don Chisciotte, Genova 2004), il che però
è il difetto dei pazzi – come Amleto e don Chisciotte del resto.
Poiché Amleto e don Chisciotte
esisterebbero come matrici essenziali delle possibilità
psicoesistenziali dell’uomo, molto più che inventati sarebbero stati
scoperti dai loro geniali autori. Già il romanticismo tedesco, del
resto, s’era identificato col Principe dalla nera figura, sofistica
nello sminuzzar dubbî sul suo essere e non essere, incapace di
lottare per l’unificazione della nazione: «Alla medesima epoca
risaliva anche in Russia la lettura dell’amletismo come fenomeno di
patologia sociale, originato dalla fatale contraddizione tra i
generosi slanci morali dell’intelligencija più consapevole e
la sua assoluta impossibilità di azione, nella cupa, soffocante
atmosfera del regno di Nicola I. Nella presentazione della propria
traduzione della tragedia (1836), N. Polevoj conduceva un aperto
parallelo tra il personaggio shakespeariano e l’intellettuale russo
del suo tempo, schiacciato dal fallimento del moto decabrista,
politicamente passivo, sprofondato in una tormentosa impotenza di
fronte all’imperversare della reazione. Tale lettura attualizzata
dell’Amleto (ben avvertibile anche nel taglio della
traduzione) ne favorì senza dubbio lo straordinario successo sulle
scene teatrali russe» (Ibid.).
A parte il poco
plausibile saggio Amleto e don Chisciotte, molti eroi
di Turgenev appartengono al «tipo Amleto»: Rudin dell'omonimo
romanzo (1856), Lavreckij di Un nido di nobili
(1859), Bazarov di Padri e figli (1862),
Litvinov di Fumo (1867), «uomini superflui»,
«idealisti degli anni quaranta» (ma poi anche dei decenni
successivi), animati da una filosofia astratta e fuori della vita,
sempre bloccati tra propositi e incapacità di fare. A un antagonista
è invece affidato il ruolo di una forte volontà e del dominio di sé,
e qui emergono figure femminili che cercano di vivere secondo
pensiero e sentimento.
La preferenza per il cavaliere
dalla trista figura fu condivisa dal Černiševskij, allora
celeberrimo per il romanzo Che fare? (1863).