"Il Compagno segreto" - Lunario letterario. Numero 12, settembre 2007                                         


 

n. 12 °*° William Shakespeare: Spettro delle mie brame - fantasmi di Amleto  °*° n. 12

 


 

 

38. Turgenev

 

 

 

 


«Gli Amleto per la massa non sono di alcuna utilità; non le danno nulla, non la possono condurre da nessuna parte, perché essi stessi non vanno da nessuna parte»; «gli Amleto non trovano nulla, non inventano nulla e non lasciano nulla dietro di sé, se non l’impronta della propria personalità individuale, non lasciano nulla di utile» (I. Turgenev, Amleto e Don Chisciotte, Genova 2004). Netta dunque la preferenza dell’autore di Padri e figli al generoso assalitore di mulini a vento. La parola «utile» applicata alla letteratura non può non far venire in mente un bel grumo di cose novecentesche e, benché del tutto ignare all’innocente Turgenev, terribili.

 

Nel saggio, in verità Turgenev pare non conoscere benissimo né il capolavoro di Cervantes né quello di Shakespeare. A un certo punto scrive che l’esperto mondiale di letteratura cavalleresca Don Chisciotte «sa a malapena leggere e scrivere», quando si sa anche senza aver neppure sfogliato il libro che don Chisciotte, come il compagno segreto, leggeva troppo per il suo piccolo cervello.

 

 

 

A Turgenev Don Chisciotte piace perché è un ottimista sempre in marcia, sempre impegnato a vivere nel migliore dei mondi possibili, mentre Amleto è almeno ogni tanto assolutamente certo di essere finito nel peggiore. Da ciò una diversa attitudine a una vita disciplinatamente fattiva.

 

Sempre a riprova di uno strano fraintendimento del testo, Turgenev arriva a scrivere che don Chisciotte, benché capisca «poco di poesia», il che – e qui tutti d’accordo – «non è un gran male», «capisce però le esigenze della vita reale del nostro tempo» (I. S. Turgenev, lettera a A. V. Družinin, 30 ottobre [11 novembre] 1856); il che ci conforta nel sospetto che dedicarsi alle «esigenze della vita reale» sia per lo più una forma eminente di donchisciottismo.

 

Lo giustifica il curatore della versione italiana: a Turgenev interessano non i testi ma gli archetipi, e dunque l’antitesi eterna tra due tipi ideali. Da ciò una serie di deroghe alla fedeltà testuale dove questa intralcia «il processo logico del ragionamento» (M. A. Curletto, intr. a: I. Turgenev, Amleto e Don Chisciotte, Genova 2004), il che però è il difetto dei pazzi – come Amleto e don Chisciotte del resto.

 

 

 

Poiché Amleto e don Chisciotte esisterebbero come matrici essenziali delle possibilità psicoesistenziali dell’uomo, molto più che inventati sarebbero stati scoperti dai loro geniali autori. Già il romanticismo tedesco, del resto, s’era identificato col Principe dalla nera figura, sofistica nello sminuzzar dubbî sul suo essere e non essere, incapace di lottare per l’unificazione della nazione: «Alla medesima epoca risaliva anche in Russia la lettura dell’amletismo come fenomeno di patologia sociale, originato dalla fatale contraddizione tra i generosi slanci morali dell’intelligencija più consapevole e la sua assoluta impossibilità di azione, nella cupa, soffocante atmosfera del regno di Nicola I. Nella presentazione della propria traduzione della tragedia (1836), N. Polevoj conduceva un aperto parallelo tra il personaggio shakespeariano e l’intellettuale russo del suo tempo, schiacciato dal fallimento del moto decabrista, politicamente passivo, sprofondato in una tormentosa impotenza di fronte all’imperversare della reazione. Tale lettura attualizzata dell’Amleto (ben avvertibile anche nel taglio della traduzione) ne favorì senza dubbio lo straordinario successo sulle scene teatrali russe» (Ibid.).

 

A parte il poco plausibile saggio Amleto e don Chisciotte, molti eroi di Turgenev appartengono al «tipo Amleto»: Rudin dell'omonimo romanzo (1856), Lavreckij di Un nido di nobili (1859), Bazarov di Padri e figli (1862), Litvinov di Fumo (1867),  «uomini superflui», «idealisti degli anni quaranta» (ma poi anche dei decenni successivi), animati da una filosofia astratta e fuori della vita, sempre bloccati tra propositi e incapacità di fare. A un antagonista è invece affidato il ruolo di una forte volontà e del dominio di sé, e qui emergono figure femminili che cercano di vivere secondo pensiero e sentimento.

 

 

 

La preferenza per il cavaliere dalla trista figura fu condivisa dal Černiševskij, allora celeberrimo per il romanzo Che fare? (1863).


 

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