Greci crudeli
(senza
Aristotele)
AMLETO - Nelle intimità della Fortuna? Che infatti è una puttana.
(Atto II, sc. 2)
«Io credo che la tragedia greca,
se accostata e intesa liberandosi da un chiuso approccio
razionalistico, abbia molta più affinità con quella shakespeariana
di quanta non le concedano i rispettivi modelli di lettura
tradizionali. Negli ultimi decenni alcuni studiosi inglesi di
Shakespeare, i quali finalmente cominciano a liberarsi da ipoteche
razionalistiche e moralistiche, hanno fatto ottimi studi della
tessitura ironica del linguaggio delle tragedie sorprendentemente
analogo a quello dei Greci, dell’ambiguità inesauribile dei
caratteri, dell’inesistenza di un superamento finale del momento
tragico, e della natura conflittuale, aporetica, inconclusiva,
antidogmatica del messaggio ultimo delle opere. Ciò porterebbe
all’individuazione dell’unità dell’immaginazione tragica
occidentale, se quei critici disponessero di una base teorica e
storica per organizzare le loro sparse intuizioni. Mia profonda
convinzione è che Shakespeare, assai più classico degli imitatori
neoclassici di superficie, abbia fatto rinascere in forme legate
per struttura profonda alle antiche la visione crudele dei tragici
greci. Il suo genio possiede l’originalità di cui parlava Gaudì,
essere capaci di tornare alle origini e porsi in tal modo come
nuova origine. Riscopritore di verità dimenticate, egli fa
rivivere nei modi del suo tempo la forza degli archetipi con la
loro capacità di parlare alle epoche future. Reinventa il pensiero
libero della tragedia e investe di una luce tragica il mondo
moderno che per un tratto se ne illumina, prima di essere
nuovamente velato dall’Illuminismo.»
(N.
D’Agostino, Shakespeare e i greci, Roma 1994)