AMLETO -
…Perché
ogni eccesso in questo è lontano dallo scopo del teatro, il cui
fine, agli inizi come ora, è stato sempre ed è di porgere,
diciamo, uno specchio alla natura; di mostrare alla virtù il suo
volto, al vizio la sua immagine, e all'epoca stessa, alla sostanza
del tempo, la loro forma e impronta.
(Atto III,
sc. 2)
RUSSIA
Popolarissimo in
Russia Gamlet (così si chiama Amleto)! E piena di
Amleti più o meno sotto mentite spoglie è la letteratura russa: al
punto che durante la Seconda guerra mondiale Stalin ne
vieta la rappresentazione. Amleto appariva ideologicamente
irriciclabile: troppi dubbî, troppa metafisica, troppo nichilismo.
Si tornerà a
chiedersi essere o non essere solo dopo la morte del
dittatore, nel 1954: regia di Nikolaj Okhlopkov,
l’erede di Meierchol’d (scomparso pochi anni prima in una
delle purghe). Lo spettacolo che va in scena al
Teatro Meierchol’d di Mosca, ed è concepito come specchio (Amleto,
Atto II, sc….) per leggere il passato tutt’altro che passato del
paese. E’ un Amleto ribelle contro «il freddo abbraccio della
prigione» danese che ha trovato in Claudio il suo tiranno. Ma
niente è per sempre: anche se è destinato a morire, «oltre la sua
morte, oltre la sua personale sconfitta, si intravede la vittoria
storica dell’umanesimo».
Lo scenografo
Vadim Ryndin disegna una grande porta di metallo, decorata con
borchie e simboli araldici. Questo pesante sipario di ferro può
scivolare verso i lati o aprirsi al centro, per mostrare le varie
sezioni del palcoscenico su cui si svolge l’azione: una reggia
vichinga ingombra di oggetti massicci (colonne, navi…). Nella
scena della recita, questo portale-sipario si apre per mostrare i
palchi su cui siedono gli spettatori. Il segno più forte dello
spettacolo è dunque quel marchingegno dai movimenti macchinosi,
che trasforma la reggia e l’intera «Danimarca» in una prigione:
messaggio dunque inequivocabile.
POLONIA
«L’Amleto
rappresentato a Cracovia alcune settimane dopo il XX Congresso del
Partito Comunista dell’URSS, dura tre ore. Non un minuto di più. È
aereo e trasparente, teso e crudele, moderno e coerente, ridotto
ad un unico problema. È tutto, da cima a fondo, un dramma
politico. ‘V’è qualcosa di putrido nello stato di Danimarca’.
Questo è il primo accordo della nuova attualità dell’Amleto.
E poi, ripetuto sordamente per tre volte: ‘La Danimarca è una
prigione’. E infine la magnifica scena coi becchini, spogliata
d’ogni metafisica, brutale e inequivocabile. I becchini sanno per
chi stanno scavando le fosse. ‘Le fosse’, dicono, ‘son costruite
più forte della chiesa’. La parola ripetuta più spesso sulla scena
è ‘sorvegliare’. Qui sono sorvegliati tutti, senza eccezione, e in
continuazione.»
(J. Kott,
Shakespeare nostro contemporaneo)
«Tre anni dopo,
il personaggio sta già radicalmente cambiando di segno. «L’Amleto
della messa in scena del tardo autunno 1956 non leggeva che i
giornali. Gridava che ‘la Danimarca è una prigione’ e raddrizzava
il mondo. Era un ideologo in rivolta, si consumava tutto
nell’azione. L’Amleto del 1959 è già divorato dal dubbio. È
ridiventato il ‘povero ragazzo triste, con un libro in mano’
[secondo la definizione del drammaturgo Wyspianski]. Non ci
vuol nulla a immaginarcelo con un maglione nero e i blue jeans. Il
libro che ha tra le mani non sarà più Montaigne, ma Sartre, Camus
o Kafka. Ha fatto i suoi studi a Parigi, a Bruxelles o forse, come
il vero Amleto, a Wittemberga. È rientrato in Polonia da tre o
quattro anni. È divorato dal dubbio se si possa o no ridurre il
mondo a poche semplici formule. Talvolta è oppresso da tristi
pensieri sulla fondamentale assurdità dell’esistenza.»
(Ibid.).