«Chi molto legge prima di
comporre, ruba senza avvedersene, e perde l’originalità, se l’avea.
E per questa ragione anche avea abbandonato fin dall’anno innanzi
la lettura di Shakespeare (oltre che mi toccava di leggerlo
tradotto in francese). Ma quanto più mi andava a sangue
quell’autore (di cui però benissimo distingueva tutti i difetti),
tanto più me ne volli astenere.»
(V. Alfieri, Vita, IV,
2)
Dunque Alfieri fa l’esperto, il
cui massimo grado è poter dire «non l’ho letto e non mi piace»
(frase troppo bella per essere di uno solo e infatti attribuita a
molti: Philip Roth, Vanni Scheiwiller, Giorgio Manganelli, ecc.).
L’autore che esordì come tragico scrivendo e riscrivendo un
Antonio e Cleopatra (1774-75), che però ripudiò,
sarà certo almeno in questo primo caso partito dalla stessa fonte
plutarchiana di uno dei drammi per noi supremi di Shakespeare, ma
certo tenendosi lontanissimo dai toni iperironici di una
tragedia parodia della tragedia, tenendo anche il sangue e la
morte all’interno di una sophisticated comedy che fa
pensare ammirati più a Lubitsch e Billy Wilder che a senechiani
coturni tonitruanti.
Quando scrive quel brano della
sua Vita, Alfieri sta ricordando a poco più di
cinquant’anni com’era a ventisette (1776): un ritratto
dell’artista da giovane (Alfieri, si sa, fu un febbrile enfant
prodige in ritardo) in cui appare studioso e prolifico, ma
tenendosi ben stretto ai limiti della biblioteca del cànone
tradizionale. Il fascino enorme del personaggio nascerà del resto
proprio dal suo nuovo stridore, da quanto preromantica furia
ritroverà e innesterà in testi fino allora studiati e imitati con
sempre più flebile identificazione sentimentale (cfr. G.
Macchia, Origini del romanticismo europeo, in
Letteratura Italiana, a cura di E. Cecchi e N. Sapegno, Milano
1969).
Cosa sentiva di temere da
Shakespeare, che lo colpiva tanto già a leggerlo in pessima
traduzione francese?
Perché quell’andargli «al sangue» era qualcosa da cui difendersi,
mentre non valeva lo stesso, per esempio, per Seneca? Forse il
fatto che in Shakespeare pareva – soprattutto allora! - che nessun
argine venisse tenuto in piedi, e che il raccontabile e
l’irraccontabile del mondo riesplodesse selvaggio e caotico,
eccessivo di stridori e di barbarie?
Il barbaro Alfieri avrà cercato
invece argini che ne contenessero e veicolassero la forza verso un
optimum di espressione artistica che nel suo caso si darà
solo nell’adesione a una forma in quanto tale accettata
come la sola ammessa? Proprio perché barbaro, classico?
Nel 1776 Alfieri riprende lo
studio del latino e legge le Odi di Orazio. Verseggia il
Filippo. Continua a studiare i classici italiani.
Deciso a «disfrancesarsi», in aprile parte per il suo
primo «viaggio letterario» in Toscana (Vita,
IV, 2). Soggiorna «sei o sette settimane» a
Pisa,
dove discute utilmente con «i più celebri professori» di scrittura
tragica: Lorenzo Pignotti, Angelo Maria Fabroni, Giovanni Maria
Lampredi, Antonio Maria Vannucchi. Sempre a Pisa stende la stesura
dell’Antigone
e mette in versi il
Polinice (chi ha letto la Vita ricorderà la
pagina molto bella dove racconta le varie fasi della sua
scrittura). La Legge ad alcuni di «quei barbassori
dell’Università» (Ibid.).
Idea «ad un parto le due gemelle tragedie»
Agamennone e
Oreste. Traduce l’Ars poetica
di Orazio e legge le tragedie di
Seneca,
apprezzando grandemente l’energia del verso giambico.