"Il Compagno segreto" - Lunario letterario. Numero 12, settembre 2007                                         


 

 n. 12 °*° William Shakespeare: Spettro delle mie brame - fantasmi di Amleto  °*° n. 12

 


 

 

23. Margaret Atwood

 

 

 

 


Gertrude dice la sua

 

Ho sempre pensato che fu uno sbaglio chiamarti Amleto. Che razza di nome, dico, per un bambino! L’idea fu di tuo padre. Che bisogno c’era di metterti il suo nome? Egoista. Gli altri bambini a scuola si divertivano da morire a pigliarti in giro. I soprannomi! E quei tremendi sfottò sul culatello. Io ti volevo chiamare Giorgio.

Non è che mi torco le mani. Mi sto asciugando le unghie. E smettila, tesoro, di giocherellare con lo specchio. E’ già il terzo che mi rompi. Sì, li ho visti i ritratti, grazie, grazie.

Lo so, che tuo padre era più bello di Claudio. Fronte alta, naso aquilino, eccetera - in divisa poi era un mito. Ma la bellezza non è tutto, specie in un uomo. Non per dire male d’un morto, ma penso sia ora di fartelo notare: non è che tuo padre fosse il massimo dell’allegria. Un’anima nobile, certo, non dico di no. Ma, vedi, Claudio di tanto in tanto apprezza un buon bicchiere, la buona cucina, si fa volentieri due risate. Capisci cosa intendo? Non è che devi andare in giro sempre in punta di piedi per via d’un principio o che altro più sacro di te.

 

A proposito, tesoro, avrei piacere che tu non chiamassi più “Re Pancio” il tuo patrigno: è solo un po’ soprappeso, e ci soffre.

“Sudore rancido”, poi, di che? Il mio letto non è certo “lardoso”, checché significhi! E “lurido porcile”? Ma che diamine! Non che la cosa ti riguardi, ma io le lenzuola le cambio due volte a settimana, cioè più spesso di te, a giudicare da quell’immonda topaia per studenti a Wittenberg. Stai certo che non ci torno più a farti visita senza preavviso! Lo so io che razza di biancheria porti a casa, e neanche così spesso, anzi, campa cavallo, solo quando finisci i calzini neri!   

 

E lascia che te lo dica: in certi momenti tutti sudano! L’avresti scoperto da te, se mai ci avessi provato. Una ragazza, ecco cosa ti ci vorrebbe. Ma una ragazza vera, non come quella faccia di ricotta, come cavolo si chiama, tutta strizzata in quei suoi corsetti non-mi-toccare come un tacchino natalizio. Ti dirò, c’è qualcosa che non funziona in lei. E’ sempre in bilico. Un colpetto e vola giù.

Cércati una coi piedi per terra, e facci un po’ di capriole sulla paglia. Dopo, mi puoi parlare di luridi porcili.

No, tesoro, non sono arrabbiata con te. Ma devo dirlo: certe volte sei un tremendo bacchettone. Proprio come tuo padre. La Carne, diceva lui. E a te veniva in mente: cacca di cane. Ora, in un giovane si può anche scusare: sono sempre così intolleranti, i giovani. Ma in uno della sua età! Cavolo se era dura viverci insieme (e questo è il fioretto dell’anno).

 

Certi giorni penso che era meglio, per te e per me, se non restavi figlio unico. E tu sai chi ringraziare di questo. Non hai idea di cos’ho passato. Ogni volta che n’avevo anche solo un briciolo di voglia, capisci, giusto per scaldare queste vecchie ossa, era come se gli proponessi d’ammazzare qualcuno.

A proposito: non penserai mica che è stato Claudio a ammazzare tuo padre? Ooh, ecco perché a tavola sei stato così villano con lui!

L’avessi saputo prima te l’avrei detto subito, chiaro e tondo.

Non è stato Claudio, tesoro.

Sono stata io.

 

(Margaret Atwood, Gertrude Talks Back, in Good Bones and Simple Murders, New York, 1994. Traduzione di Fiornando Gabbrielli per il c.s.)

La voce: lettura di Sara Alzetta


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