«Lo
Shakespeare, in Amleto, interpreta la migrazione
verso l'assoluto come un cessare dell'attività finalistica:
dall'essere del monologo al non essere pratico ed etico.
Per meravigliose risonanze
sentimentali il non essere (morire, dormire, forse sognare –
to die, to sleep; - to sleep! Perchance to dream!)
appare, allo spirito esausto dal veleno della vita attuata, come
un riposo:
The potent poison quite o’er-crows my spirit.
Il compagno di gioventù
(antistrofe affettiva nella economia del dramma) comprende e quasi
con superiore chiarezza ammette il fato, consente alla morte. Non
piange, non urla, non secerne untuosi conforti: solo proferisce le
parole della puerile bontà:
Good night, sweet prince,
And flights of angels sing thee to thy rest!
«E voli di angeli cantino per
il tuo riposo.»
La morte individuale è qui poi
elemento di una ulteriore significazione: immagina il poeta che
una feroce fanfara, la volontà luminosa di giovinezza, sopravvenga
al mostruoso dissolversi di una stirpe, uccisa da neri veleni.
Un’altra stirpe, pura e più forte, continuerà la vita.
Fortebraccio reggerà la trama dell’essere:
He has my dying voice.
«Egli ha il mio voto di
morente.»
Il poeta vuole figurare che la
ricostituzione morale operata da Amleto costa a lui e alla sua
schiatta la rinuncia alla vita. L’eccesso contro la vita è espiato
così. Ad un’altra progenie è commesso di perpetuare l’attività
finale dell’essere.
Ci preme di notare come nella
compiutezza cosmica dello Shakespeare la serie spaziale
passi in secondo e terzo piano, luminoso e nero sfondo, rispetto
alla serie temporale degli sviluppi. Notiamo ancora: lo spasimo
tragico proviene ad Amleto non dalla mancata funzione finalistica
(il che accade in Femmes damnées, Le Voyage,
Bateau ivre), non dall’ossessione dell’abisso morale
aprentesi d’attorno al puro esteta; sì dalle angosce crucianti
onde l’attività finalistica lacera le deboli fibre della creatura
umana. Il fine strazia la materia.
Un sovrappiù di intensità
tragica è poi reso al dramma dal fatto che Amleto si propone un
fine «negativo» di giustizia riparatrice (negazione del male e
quasi rigetto di questo nel campo dell’impossibile); la quale
opera è per l’esecutore ben più desolantemente grave che non il
sacrificio incontrato per un fine «creativo» (costruzione del
bene, armoniosa preparazione delle époques lontaines).»
(C. E.
Gadda, I viaggi la morte)