AMLETO - Oh, è meraviglioso quando due marchingegni sbattono assieme
il muso sulla stessa rotta.
(Atto III, sc. 4)
«Sosteneva, fra l’altro, che le inopinate catastrofi non sono mai la
conseguenza o l’effetto che dir si voglia d’un unico motivo, d’una
causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione
ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta
una molteplicità di causali convergenti. Diceva anche nodo o
groviglio, o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuol dire
gomitolo. Ma il termine giuridico «le causali, la causale» gli
sfuggiva preferentemente di bocca: quasi contro sua voglia.»
(C. E. Gadda, Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana)
Insegna Hegel: nella
tragedia classica il contrasto viene da fuori, mentre integro resta lo
spirito dell’eroe che dunque sa cosa c’è da fare e su quello non ci
piove. Con Amleto il contrasto precipita all’interno stesso della
psiche sua, si fa introverso al punto che non c’è corno del dilemma
che non sia già del personaggio stesso, il quale non potrà scegliere
se non amputando se stesso di tutte le altre sue possibilità:
Alessandro Magno – un plutarchiano mito per Amleto! - può secare
gelido e blasfemo il nodo di Gordio perché in quel nodo non c’è lui.
Amleto è – ed è per questo che sogna il non essere – tutto; e
infatti non può non chiamare la sua stessa vita «essere». Essere!
Ora, l’esistenza che scopre nella sua stessa banalità l’ontologia si
fa gnommero gaddiano, un infinito inestricabile peggio del logos di
Eraclito! Un caos introflesso, tutto ripiegato nell’anima
orrendamente senza à fine, perfino al di là della rete dei miliardi
delle proprie carnose e mai stanche sinapsi!… Scoprire che vivere non
può non voler dire “essere”, essere in ogni specifica leggera idiozia
tutto – nulla più di esterno… pare davvero un ritorno tragico a
Parmenide: se tutto è Essere, la freccia non potrà che fermarsi
a mezz’aria, scoprendo di non essere stata mai in altro luogo che lì.
Così, tornando a Hegel, «nessun carattere è in sé fermo e sicuro di se
stesso» (G. W. F. Hegel, Lezioni di estetica).
Intanto, per il fruitore che
contempla tutto ciò, «una felice beatitudine nell’infelicità» (Ibid.).