AMLETO - Ah, ah! 
          su, un po' di musica!
          
          
          (Atto III; sc. 2)
          
           
          
           
          
          «Il testo shakesperiano più famoso e 
          complesso, Hamlet, ha stentato molto a trovare in Italia 
          compositori che avessero il coraggio di tradurlo in linguaggio 
          musicale; occorrerà in primo luogo dire che, per tutto il Seicento e 
          il primo Settecento, di Shakespeare si ignorava perfino l’esistenza. 
          Infatti, quelle che a prima vista sembrano opere basate sulla vicenda 
          di Amleto non riguardano il personaggio shakespeariano, ma 
          quell’Ambleto che Apostolo Zeno aveva scoperto nelle pagine di
          Saxo Gramaticus o meglio nella novella da esso ispirata inclusa 
          da Françoise de Belleforest nel quinto volume delle 
          Histoires tragiques (1570). La riduzione librettistica del 
          dramma in versi di Zeno operata da Pietro Pariati ebbe tre 
          versioni operistiche nella prima metà del Settecento: quella di 
          Francesco Gasparini nel 1705, seguita dieci anni dopo da un 
          musicista di maggiore reputazione, Domenico Scarlatti, che 
          tuttavia non sembra aver fatto grande impressione se nel 1741 
          Giuseppe Carcani riprovò a musicare lo stesso libretto.
          
           
          
          Nella seconda metà del Settecento e 
          nella prima dell’Ottocento i librettisti basarono i testi dei loro 
          Amleti non sull’originale di Shakespeare ma su quel 
          fortunato adattamento francese di Jean-François Ducis (1733-1816) 
          pubblicato nel 1769 e che ebbe una straordinaria diffusione 
          anche sui palcoscenici di prosa. Ligio alle convenzioni del teatro 
          francese da Racine in poi, il Ducis riscrisse il dramma 
          liberandolo dalle scene di violenza di quello che i francesi 
          consideravano il “barbaro” Shakespeare. Il suo Amleto non è un 
          principe, ma re di Danimarca che si rende conto delle trame ordite da 
          suo zio Claudio, il quale, responsabile della morte del padre di 
          Amleto, ne ha sposato la madre. Quest’ultima, quando suo figlio 
          vendica la morte del padre uccidendo Claudio, sopraffatta dal senso di 
          colpa si suicida. In un’ulteriore versione del dramma, per esonerare 
          Amleto da un delitto sia pure ampiamente giustificato, il Ducis 
          attribuisce l’uccisione di Claudio alla folla inferocita per la 
          scoperta dei crimini.
          
           
          
           
          
           
          
          E’ sulla versione di Ducis 
          che si basano le opere di Luigi Caruso (Firenze 1789) e 
          Gaetano Andreozzi (Padova 1792), libretto di Gaetano Foppa). 
          Queste due versioni operistiche della tragedia di Amleto sono 
          esaminate con estremo acume da Fabio Vittorini che dedica ad 
          esse molte pagine della sua fondamentale ricerca Shakespeare e 
          il melodramma romantico [Firenze, 2000]. Nonostante che 
          l’opera dell’Andreozzi sia intesa come un semplice rifacimento 
          di quella del Caruso, la presenza di un librettista esperto 
          come Giuseppe Maria Foppa conferisce ad essa una qualità a un 
          tempo letteraria e musicale inconsueta per i suoi giorni e ancora non 
          inficiata dalle convenzioni linguistiche che affliggeranno i libretti 
          di tante opere serie nel mezzo secolo successivo, a partire appunto 
          dal più popolare e ricercato librettista dell’epoca, Felice Romani. 
          Anche il Romani non poté fare a meno di trarre dal Ducis 
          i due atti del suo Amleto musicato da Saverio 
          Mercadante e presentato dapprima a Firenze nel 1814 e poi a 
          Milano nel 1822. Così pure Giovanni Peruzzini seguì il
          Ducis nella sua versione del dramma in tre atti musicata sia da
          Antonio Buzzola (Venezia 1848) sia da Luigi Moroni (Roma 
          1860). Fa eccezione forse a questa regola una figura singolare di 
          musicista, drammaturgo e patriota veneziano, Angelo Zanardini, 
          che fece rappresentare un suo Amleto nel 1854.
          
           
          
          Lo Zanardini, che più tardi 
          sarà il traduttore dei libretti wagneriani, opera un compromesso fra 
          le versioni del Ducis e i testi originali: la fedeltà a 
          Shakespeare si manifesta soprattutto nei primi atti, ma la conclusione 
          della tragedia è un compromesso fra la strage presentata 
          nell’originale e la concezione cristiana del perdono, per cui i 
          colpevoli di fratricidio e uxoricidio vengono giustiziati, ma non 
          senza ottenere il perdono di Amleto prima di salire sul patibolo. Ecco 
          dunque confermata la tradizione francese che vede Amleto 
          sopravvivere.»
          
           
          
          (G. Melchiori, Shakespeare 
          all’opera. I drammi nella librettistica italiana, Roma 2006)