«Nel suo tipico
modo acuto e spicciativo-arruffato la Poetica parte dalla
definizione dell’arte come mimesi (oggi forse rappresentazione)
qualificandola poi come “mimesi di uomini che agiscono”…»
(N. D’Agostino,
Shakespeare e i greci, Roma 1994)
Per Amleto gli attori non sono
pezzi di carne in mano a un tiranno (è nota la battutaccia di
Hitchcock, ma viene in mente soprattutto Fritz Lang che non
solo la Dietrich trovò «nazista») che onnisciente tutto
controlla e dispone. Gli attori sono anzi omaggiati ironicamente come
«i compendi e le brevi cronache del tempo; dopo la vostra morte
sarebbe meglio per voi avere un cattivo epitaffio che la loro mala
voce finché vivete» (Atto II, sc. 2): dove pare di sentire
l’eco della medesima minaccia che Ariosto fa dire al libertino
san Giovanni del Furioso in difesa dei poeti (canto
XXXV).
Affascinante che Amleto stesso cada
nel gorgo dell’incanto carismatico, nella trappola per topi del grand’attore
che recita la morte di Priamo. Per quella tirata, si ritrova infatti
subito dopo solo e shockato a dirsi un’altra cascata di cattiverie:
«Ora son solo. Oh, che furfante e bifolco son io! Non è mostruoso che
quest’attore qui, solo in una finzione, sognando la sua passione,
possa forzare l’anima a un’immagine al punto da averne il viso tutto
scolorato, le lacrime agli occhi, la pazzia nell’aspetto, la voce
rotta, e ogni funzione tesa a dare forma a un'idea? E tutto per nulla,
per Ecuba!» (sempre Atto
II, sc. 2).
– Questo «nulla», questo «zero» («come uno sgorbio di cifre serve in
breve spazio a rappresentare un milione, così lasciate che noi,
semplici zeri in questo gran conto, mettiamo in moto le forze della
vostra immaginazione.» Enrico V, Prologo) moltiplica per
dieci ogni uno a cui faccia da coda.
Il riconoscimento del potere di
attori-zero di indurre non catarsi ma psichici turbamenti è già
qualcosa che sborda dalla tranquillizzante Poetica del troppo
normativo Aristotele. Se si può impazzire o confessar delitti per un
po’ di teatro, la promessa del quietarsi nel raziocinio gnomico della
catarsi suonerà vera come la medicina di Dulcamara: «….voi uscirete di
qui colti, pensosi, litigiosi, uxoricidi, figli ribelli, mogli
adultere, ufficiali dimissionari; in ogni modo migliori» (A.
Frassinetti e G. Manganelli, Teo, in G. Manganelli,
Tragedie da leggere, Torino 2005).