«…l’instabilità del testo
shakespeariano»
(G. Melchiori,
Shakespeare,
Roma-Bari,
2005)
«Gli inizi sono quelli di un
qualunque aspirante attore del tempo, che viene assunto a giornata
dall’una o dall’altra compagnia in ruoli secondari; ma Shakespeare
dovette rivelare ben presto non solo le sue qualità mimiche, ma anche
la sua eccezionale capacità di collaborazione alla stesura dei
copioni, tanto da divenire talora il principale responsabile di un
lavoro che, prendendo a prestito il termine dal linguaggio
cinematografico, si potrebbe definire di sceneggiatore»
(G. Melchiori, Shakespeare,
Roma-Bari, 2005).
Quindi la gavetta. Il primo testo a
stampa, anonimo e forse a più mani, il Titus Andronicus
nel 1594 (grande successo a lungo replicato, pieno di
effettacci come neanche nelle Jene di Tarantino).
Il primo dramma invece pubblicato col suo nome fu Love’s
labour’s Lost nel 1598 (tutt’un’altra atmosfera: pun
– e cioè giochi di parole - eufuistici, galanterie petrarchesche:
quelle che in Romeo and Juliet si chiameranno «frasi di
taffetà»).
Quando Shakespeare entrò nella
compagnia dei Chamnerlain’s Men, fu da subito full sharer,
il che naturalmente non ha niente a che fare con una certa idea
romantica dell’autore come il creatore su cui tutto a teatro
converge. Continuiamo a citare il preziosissimo Melchiori: «La
scelta del testo spetta sempre in ultima analisi e di volta in volta
non all’autore, non all’uomo di lettere nel suo studio, ma all’attore,
al regista e ai suoi collaboratori che realizzavano quel testo in
quanto creazione collettiva»; «Shakespeare è soprattutto Teatro, e del
Teatro ha tutta l’impermanenza…» (Ibid.). Come si vede,
sembra Carmelo Bene.
Anche l’ultimo lavoro, Henry
VIII, fu a quattro mani, con John Fletcher. La prima il
29 giugno 1613: tra gli effetti scenici era prevista una salve
di artiglieria; la paglia del tetto del prese fuoco e il teatro fu
distrutto dalle fiamme.