«Si tratta di un’arena circolare o
ottagonale, scoperta, circondata per tre quarti da tre ordini di
gallerie; l’altro quarto era adibito a retroscena, e una piattaforna
rettangolare rialzata si estendeva da esso fino al centro dell’arena;
era questo il cosiddetto apron stage,
letteralmente «palcoscenico a grembiule» (circondato da tre quarti dal
pubblico in piedi nell’arena e da quello nelle gallerie) sul quale si
svolgeva la maggior parte dell’azione scenica. Il palcoscenico era in
parte coperta da un’alta tettoia, sorretta da due colonne di legno,
che ne formavano il ‘cielo’. Sulla parete di fondo, oltre a due porte
che permettevano l’accesso degli attori sul palco, si apriva – in
alcuni teatri ma non allo Swan – un vano centrale che poteva essere
celato da una tenda e fungere da stanza interna o
discovery place
(nascondiglio o spazio per le apparizioni). Sovrastava le due porte
una galleria praticabile, utilizzata anch’essa per l’azione scenica o
per ospitare piccoli complessi di musici. Uno spazio, dunque,
antinaturalista, senza possibilità di mutamenti di scena o di effetti
di luce (la rappresentazione avveniva di giorno), così da privilegiare
esclusivamente la parola e il gesto,
ai quali era affidato il compito di orientare l’attenzione dello
spettatore. D’altra parte lo spettatore non era separato dall’attore
da alcun diaframma: la comunicazione era immediata, il monologo e l’aside
trasformavano l’ascoltatore non tanto in un anonimo
destinatario di un messaggio fittizio, quanto in un interlocutore
diretto o addirittura in confidente.»
(G.
Melchiori, Shakespeare, Roma-Bari, 2005)