«Il teatro della crudeltà
espelle Dio dalla scena. Non mette in scena un nuovo discorso ateo,
non presta la parola all’ateismo, non apre lo spazio teatrale a una
logica filosofante che proclami una volta di più, come se non fossimo
già stanchi di questo, la morte di Dio. Nella sua azione e nella sua
struttura, la pratica teatrale della crudeltà già abita o meglio
produce uno spazio non-teologico.
La scena è teologica finché resta
dominata dalla parola, da una volontà di parola, dal disegno di un
logos primo che non appartiene al luogo teatrale e lo dirige a
distanza. La scena è teologica finché la sua struttura comporta,
secondo la tradizione di sempre, i seguenti elementi: un
autore-creatore che, assente e da lontano, armato di un testo,
sorveglia, raccoglie e determina il tempo o il senso della
rappresentazione, lasciando che questa lo rappresenti in
quello che viene definito il contenuto dei suoi pensieri, delle sue
intenzioni, delle sue idee. Lo rappresenti per mezzo di
rappresentanti, registi e attori, interpreti asserviti che
rappresentano dei personaggi i quali, in primo luogo con quello che
dicono, rappresentano più o meno direttamente il pensiero del
«creatore». Schiavi che interpretano, eseguono fedelmente i disegni
provvidenziali del «padrone». Il quale poi – è la regola ironica della
struttura rappresentativa che organizza tutto questi rapporti – non
crea nulla, si dà solo l’illusione di creare poiché non fa che
trascrivere e dare da leggere un testo che è necessariamente, a sua
volta, di natura rappresentativa e che col «reale» (l’ente reale,
quella «realtà» di cui Artaud dice nell’Avertissement
al Moine che essa è un «escremento dello spirito»)
mantiene un rapporto imitativo e riproduttivo. Infine, un pubblico
passivo, seduto, un pubblico di spettatori, di consumatori, di
jouisseurs – come dicono Nietzsche e Artaud –
che assistono a uno spettacolo privo di volume e di profondità
autentici, piatto, offerto al loro sguardo di voyeur.
(Nel teatro della crudeltà, la pura visibilità non è suscettibile di
voyeurismo). Questa struttura generale in cui ciascuna istanza è
legata da un rapporto di rappresentazione a tutte le altre, in cui
l’irrappresentabile del presente vivo è dissimulato o dissolto, eliso
o convogliato nella catena infinita delle rappresentazioni, questa
struttura non è mai stata modificata. Tutte le rivoluzioni l’hanno
lasciata intatta, hanno anzi il più delle volte mirato a proteggerla o
a restaurarla. E’ sempre il testo fonetico, la parola, il discorso
trasmesso – eventualmente dal suggeritore, che con la sua buca è il
centro nascosto ma indispensabile della struttura rappresentativa – a
garantire il movimento della rappresentazione. Per quanto rilievo
possano assumere, tutte le forme pittoriche, musicali e perfino
gestuali introdotte nel teatro occidentale non fanno altro, nel
migliore dei casi, che illustrare, accompagnare, servire, abbellire un
testo, un tessuto verbale, un logos che si dice in partenza.»
(J. Derrida, Prefazione a
A. Artaud, Il teatro e il suo doppio, Torino 2000)