AMLETO - Il destino mi chiama…
(Atto I, sc. 3)
GUILDENSTERN - Fortunati di non essere troppo fortunati.
(Atto II, sc. 2)
FORTEBRACCIO - Con rincrescimento abbraccio la mia buona sorte. (Atto
V, sc. 2)
«La grande tragedia come la
conosciamo nei Greci e in Shakespeare consiste nella
creazione di un modello artistico del mondo nel quale il demiurgo
occulto non ha voce, non esprime adesione né dissenso, non s’impone
come giudice o interprete, nemmeno attraverso il coro greco o gli
a-parte. L’autore si cancella e lascia parlare le cose. La
rappresentazione consiste nel conflitto al presente, senza divenire,
crescita, esito o superamento dialettico, dei punti di vista autonomi
(idee del mondo o «sottomondi») dei personaggi singoli (uomini o dèi
nei Greci) e corali che vi sono mostrati, e che sono oggettivati al
massimo, non come «oggetti della parola dell’autore» ma come «soggetti
della propria parola» (Bachtin). Questi punti di vista si
esprimono nell’azione o la costituiscono. Tutto è ricondotto
all’orizzonte del personaggio. La tragedia è visione di visioni
conflittuali del mondo, e senza che la realtà - un universo
costantemente scisso tra un sopra e un sotto, un mondo pervaso di
forze inaccessibili alla ragione umana, diviso nei due livelli
interagenti dell’immanente e del trascendente – ne riceva spiegazione.
Il messaggio globale (…) che l’autore destina al suo fruitore ideale
è, nella sua natura inconclusiva, non consolatoria e blasfema,
l’irrazionalità, la conflittualità, la non spiegabilità, la natura
aporetica del mondo stesso. (…). Rispetto ai suoi liberi personaggi,
il vantaggio dell’autore è la coscienza tragica di cui essi mancano,
pur essendo coscienti della propria «tragicità» nel senso inferiore,
comune e banale del termine.»
(N. D’Agostino, Shakespeare e
i greci, Roma 1994)