"Il Compagno segreto" - Lunario letterario.Numero 12, settembre 2007 

 


 

n. 12 °*° W. Shakespeare : Fantasmi di Amleto  °*° n. 12

 

 

3.  Destino e volontà

 

 


Amleto - E per finire dove cominciai,

destino e volontà son così avversi

che i nostri piani spesso vanno persi:

nostri i  pensieri, gli esiti mai.

(Atto III, sc. 2, 206-9)

  

Questi sono, di tutta la letteratura mondiale, le parole fondamentali per Kierkegaard (Il punto di vista esplicativo sulla mia opera di scrittore, 1848). E infatti mettere in ghingheri i discorsi e far belle lustre e polite le teorie, è ancora niente rispetto a poi restare in rotta nel mare della prassi: i Greci lo sapevano e mettevano la phronesis più in alto di ogni theorìa (Aristotele, VI libro dell'Etica Nicomachea). Da ciò gli imbarazzi dei teorici di fronte all’oscenità del ritrovarsi ad agire, «contaminati dalla superstizione dell’atto» (E. M. Cioran, La tentazione di esistere).

 

«La sola cosa che può mettere un uomo distaccato in uno stato di agitazione, come mostra lo stesso Bruto, è la prospettiva di dover agire» (W. H. Auden, Lezioni su Shakespeare). Gli uomini pratici – gli estroversi nei Tipi psicologici di C. G. Jung – sono invece tutto il contrario; per iniziare non cercano un logos quasi come il Dio del Vangelo di Giovanni: «Per noi in principio c’era l’azione. La parola l’ha seguita, sua ombra sonora» (L. Trotskij, Letteratura e rivoluzione, 1924). Né c’è estroverso, qualunque pezza ideologica si procuri, che non agisca così, essendo i «residui» che in lui si agitano qualcosa di atavico, non razionale, pre-politico, pulsionale (V. Pareto, Trattato di sociologia generale, 1916): quello che Machiavelli chiamava la «natura» di un uomo (Il principe, cap. XXV). Uguale Schopenhauer: «Come l’uomo è, così egli è obbligato ad agire» (A. Schopenhauer, Parerga e paralipomena). Coerentemente con questo, il filosofo se la prende con Dio, che ha fatto l’uomo come è, per la faccenda del peccato originale con tutte le sue conseguenze.

 

 

 

Nella lettera con cui conclude il suo apprendistato, l’ex-amletico Wilhelm Meister ha trovato le sue risposte: «L’arte è lunga, la vita breve, il giudizio arduo, l’occasione fuggevole. Facile è agire, difficile pensare; gravoso agire secondo il pensiero. Ogni inizio è lieto, la soglia è il luogo dell’attesa. (…) Nessuno sa ciò che fa quando opera rettamente; ma del mal fatto siamo sempre coscienti.» (J. W. Goethe, Wilhelm Meister. Gli anni dell’apprendistato, Milano 2006).

Vedi i coniugi Macbeth. Lui: «la luce non veda i miei tenebrosi e profondi desideri: l’occhio si chiuda davanti alla mano; e sia pure quell’atto che l’occhio ha paura di vedere quando è compiuto» (Macbeth Atto I, sc. 4); lei: «che il mio affilato pugnale non veda la ferita che fa…» (Atto I, sc. 5).

 

Da Amleto arriva uno spettro coi suoi ordini: qualcosa di troppo ridondante per poter essere preso per puramente numinoso. Lo Spettro è un’esagerazione tutt’altro che discreta, e ad Amleto comprensibilmente non basta. Avesse la lucidità concessa solo alle commedie, magari come Viola direbbe « O tempo, sei tu che devi districare questa vicenda, non io; per me è un nodo troppo difficile a sciogliere!» (La dodicesima notte, Atto II, sc. 2), e invece ne combina di cotte e di crude, sempre sbagliando.

 

 

Però lo shakespearologo scrive che « la grandezza di Amleto, il suo superamento del ruolo di eroe-cattivo, è strettamente legata al suo rifiuto della volontà, compresa la volontà di vendetta, un proposito cui sfugge mediante la negazione, che in lui è un metodo revisionista capace di ridurre ogni contesto a un teatro» (H. Bloom, Shakespeare, Milano 2003). E queste sono proprio cose da professori: risposte risposte risposte che dicono niente niente niente.

 

Amleto negatore di volontà mediante negazione uccide tre persone già prima della farsa del duello dove finalmente fa fuori Claudio; della morte di Rosencrantz e Guildenstern anche si compiace, e certo non può dirsi innocente del suicidio di Ofelia. Notoriamente parla troppo per agire bene sia rispetto a un fine qualunque che tanto più per un fine morale che sia un po’ più in là dell’adempimento della faida.

Giusto per contrasto lasciamo qui in fondo questa perla:

 

«Quando non si procede più con idee proprie, non occorre più difendersi con parole; le nostre parole possono esprimere soltanto le nostre idee; dove non si presuppongono idee, nessun bisogno di parole; a che servirebbero? A trovare un motivo per quel che si è fatto? Ma lo ignoriamo, questo motivo.»

(J. P. de Caussade, L’abbandono alla Provvidenza Divina, 1741, Milano 2003)

 


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