Amleto - E
per finire dove cominciai,
destino e
volontà son così avversi
che i nostri
piani spesso vanno persi:
nostri i
pensieri, gli esiti mai.
(Atto III,
sc. 2, 206-9)
Questi sono, di tutta la letteratura
mondiale, le parole fondamentali per Kierkegaard (Il punto di
vista esplicativo sulla mia opera di scrittore, 1848).
E infatti mettere in ghingheri i discorsi e far belle lustre e polite
le teorie, è ancora niente rispetto a poi restare in rotta nel mare
della prassi: i Greci lo sapevano e mettevano la phronesis più in alto
di ogni theorìa (Aristotele, VI libro dell'Etica Nicomachea).
Da ciò gli imbarazzi dei teorici di fronte all’oscenità del ritrovarsi
ad agire, «contaminati dalla superstizione dell’atto» (E. M.
Cioran, La tentazione di esistere).
«La sola cosa che può mettere un
uomo distaccato in uno stato di agitazione, come mostra lo stesso
Bruto, è la prospettiva di dover agire» (W.
H. Auden, Lezioni su Shakespeare).
Gli uomini pratici – gli estroversi nei Tipi psicologici
di C. G. Jung – sono invece tutto il contrario; per iniziare
non cercano un logos quasi come il Dio del Vangelo di Giovanni:
«Per noi in principio c’era l’azione. La parola l’ha seguita, sua
ombra sonora» (L. Trotskij, Letteratura e rivoluzione, 1924).
Né c’è estroverso, qualunque pezza ideologica si procuri, che non
agisca così, essendo i «residui» che in lui si agitano qualcosa di
atavico, non razionale, pre-politico, pulsionale (V. Pareto,
Trattato di sociologia generale, 1916): quello che
Machiavelli chiamava la «natura» di un uomo (Il principe,
cap. XXV). Uguale Schopenhauer: «Come l’uomo è, così egli è
obbligato ad agire» (A. Schopenhauer, Parerga e paralipomena).
Coerentemente con questo, il filosofo se la prende con Dio, che ha
fatto l’uomo come è, per la faccenda del peccato originale con tutte
le sue conseguenze.
Nella lettera con cui conclude il
suo apprendistato, l’ex-amletico Wilhelm Meister ha trovato le sue
risposte: «L’arte è lunga, la vita breve, il giudizio arduo,
l’occasione fuggevole. Facile è agire, difficile pensare; gravoso
agire secondo il pensiero. Ogni inizio è lieto, la soglia è il luogo
dell’attesa. (…) Nessuno sa ciò che fa quando opera rettamente; ma del
mal fatto siamo sempre coscienti.» (J. W. Goethe, Wilhelm Meister.
Gli anni dell’apprendistato, Milano 2006).
Vedi i coniugi Macbeth. Lui: «la
luce non veda i miei tenebrosi e profondi desideri: l’occhio si chiuda
davanti alla mano; e sia pure quell’atto che l’occhio ha paura di
vedere quando è compiuto» (Macbeth Atto I, sc. 4); lei:
«che il mio affilato pugnale non veda la ferita che fa…» (Atto I,
sc. 5).
Da Amleto arriva uno spettro coi
suoi ordini: qualcosa di troppo ridondante per poter essere preso per
puramente numinoso. Lo Spettro è un’esagerazione tutt’altro che
discreta, e ad Amleto comprensibilmente non basta. Avesse la lucidità
concessa solo alle commedie, magari come Viola direbbe « O tempo, sei
tu che devi districare questa vicenda, non io; per me è un nodo troppo
difficile a sciogliere!» (La dodicesima notte, Atto II, sc.
2), e invece ne combina di cotte e di crude, sempre sbagliando.
Però lo shakespearologo scrive che
« la grandezza di Amleto, il suo superamento del ruolo di
eroe-cattivo, è strettamente legata al suo rifiuto della volontà,
compresa la volontà di vendetta, un proposito cui sfugge mediante la
negazione, che in lui è un metodo revisionista capace di ridurre ogni
contesto a un teatro» (H. Bloom, Shakespeare, Milano 2003).
E queste sono proprio cose da professori: risposte risposte risposte
che dicono niente niente niente.
Amleto negatore di volontà
mediante negazione uccide tre persone già prima della farsa del
duello dove finalmente fa fuori Claudio; della morte di Rosencrantz e
Guildenstern anche si compiace, e certo non può dirsi innocente del
suicidio di Ofelia. Notoriamente parla troppo per agire bene sia
rispetto a un fine qualunque che tanto più per un fine morale che sia
un po’ più in là dell’adempimento della faida.
Giusto per contrasto lasciamo qui
in fondo questa perla:
«Quando non si procede più con idee proprie, non occorre più
difendersi con parole; le nostre parole possono esprimere soltanto le
nostre idee; dove non si presuppongono idee, nessun bisogno di parole;
a che servirebbero? A trovare un motivo per quel che si è fatto? Ma lo
ignoriamo, questo motivo.»
(J. P. de Caussade, L’abbandono alla Provvidenza Divina, 1741,
Milano 2003)