In giusta polemica col grande
Michail Bachtin de La parola del romanzo (ora in
Estetica r romanzo, Torino, 1979) il quale negava al teatro
la «parola bivoca» e cioè polifonica del romanzo (campione supremo,
Dostoevskij), Serpieri scrive: «e Amleto stesso non è poi
un ideologo variabile, e perciò quant’altri mai polifonico, che fa la
parte dello sciocco, del buffone e perfino del furfante, all’interno
della sua parte di impossibile eroe epico?» (A. Serpieri,
Polifonia shakespeariana, Roma 2002). Il non meno classico
Auerbach aveva visto con ben altra acutezza che «di importanza
decisiva per il carattere stilistico della tragedia di Shakespeare è
(…) la mescolanza degli stili nelle stesse persone tragiche» (E.
Auerbach, Il principe stanco, in Mimesis, Torino 1981).
Codesta miscedanza stilistica è a sua volta un sintomo di un mondo in
corsa, sbalestrato fuori dalle rocciose simmetrie antropo e
divino-centriche del modello che vediamo operare benissimo in Dante,
«di un mondo rinnovantesi di continuo e legato in tutte le sue parti»
(Ibid., citato da Serpieri e da lui anche sottolineato).
Sempre Auerbach: «La concezione
figurale di Dante (…) non esiste più; già in questo mondo le persone
tragiche trovano la loro ultima perfezione, quando, grevi di destino,
maturano come Amleto, Macbeth, e Lear. Però, oltre che essere
impigliati soltanto nel loro proprio destino, sono tutti legati tra di
loro, attori di uno stesso dramma scritto dallo sconosciuto e
insondabile poeta del mondo, che continua tutt’ora a scriverlo; è un
gioco il cui vero significato e la cui vera realtà sono sconosciuti a
loro ed a noi» (Ibid.).
Era del resto qualcosa di già
notato: «Una strana cosa dell’animo umano è la facoltà di accomunare
il terribile e il ridicolo: così la fantasia ama rendere un oggetto
allo stesso tempo comico e agghiacciante, in modo che proprio quel che
ora provoca grandi risate, più tardi, con una fantasia ansiosa, può
farci rabbrividire. E’ tipica della mobilità incredibilmente veloce
dell’immaginazione la facoltà di collegare allo stesso oggetto, in due
momenti successivi, idee completamente diverse che possono suscitare
ora il riso, ora l’orrore. Nelle favole di fantasmi e di streghe che
racconta la gente comune son presenti sia tratti terribili che
ridicoli. Ma è facile scoprire che se si toglie il ridicolo l’orrore
perderà gran parte della sua forza e che è proprio ciò che in un
momento può stimolarci al riso che in una fantasia esaltata suscita
l’orrore. I bambini si spaventano di fronte a caricature dipinte e
altrettanto facilmente ne ridono; le streghe del Macbeth
sarebbero oggetti comici se le circostanze in cui noi le conosciamo
non le rendessero terribili» (L. Tieck, Il meraviglioso in
Shakespeare, 1793; in
M. Fazio, Il mito di Shakespeare
e il teatro romantico, Roma 1992).