«Dubita che di
fuoco sian le stelle…
(Atto II, sc. 2)
AMLETO - La vera
grandezza non è nell’aspettare grandi cause per muoversi, ma nel
trovare degno motivo di contesa in un fuscello quand’è in gioco
l'onore.
(Atto IV, sc. 7)
«Ogni trovata è
persa»
(C. Bene e G.
Dotto, Vita di Carmelo Bene, Milano 1998)
Avrà certo ragione l’impenetrabile
principessa di Clèves a scrivere ad Amleto «voi con la vostra spada
retorica ed onesta, le vostre argomentazioni avvocatesche e
teologiche» (G.
Manganelli, Un amore impossibile, in Agli dèi ulteriori,
Torino 1972), e certo
Amleto sarà anche stato un
cacadubbî asfissiante, ma cosa pensare di una cultura universitaria –
e dunque teologica – che aveva ramificato i suoi sillogismi secolari
fino al «sottobosco spinoso e impenetrabile», al causidico caos della
«religione meccanica» (Erasmo, Dedica dell’Enchiridion)
di scolastici machiavelliani in spaesata fibrillazione tra aureo
rinascimento e torva controriforma?
«In lui non si contorce il dubbio,
chi mai ha inventato questa scemenza? Si palesa invece il dibattito…
(…) Il dubbio, semmai, non è altro che lo scrupolo procedurale (di
timbro anglosassone): e lo scrupolo procedurale fa parte delle
acquisizioni etiche dello spirito umano» (C. E. Gadda, I viaggi
la morte). – Che è quanto già sosteneva Hegel, ma senza
cogliere il salto morale riconosciuto da Gadda: «Amleto è, sì,
indeciso, ma dubita non su ciò che deve compiere, ma sul come
compierlo»(G. W. F. Hegel, Estetica). Difficile però
sostenere che una bazzecola come l’Essere o non essere articoli
uno scrupolo sulle procedure del da farsi e non sull’essenza stessa di
quel dover essere. L’indecisione sarà piuttosto qualcosa di
ineliminabile da Amleto anche se non fosse quello che è, una creatura
che vive e pensa intensamente: qualcosa che sta all’uomo come l’ombra
a un corpo colpito dalla luce, «cooriginariamente certa quale
possibilità costante dell’Esserci» (M. Heidegger, Essere e
tempo, Torino 1955).
Il problema sarà: dove fermarsi per
agire, per farsi essere nella «molteplicità aggrovigliata dei
“fenomeni” che vanno sotto il nome di fenomeno» (M. Heidegger,
Essere e tempo, Torino 1955)?... Trovare, se non un vero
fondamento, un limite oltre la scrupolosa ricerca di ambiguità, la
quale – dice bene l’esperto - «conduce rapidamente ad allucinazioni»
(W. Empson, Sette tipi di ambiguità). Amleto dalla tarda
vendetta nella sua via crucis sperimenta tutte le stazioni del
«meditare troppo sull’azione» (Atto IV, sc. 4). Si sospetta
che, di fronte a certi doveri esorbitanti (uccidere!), ogni meditare
sia troppo se lo scopo è davvero l’acefala efficacia
dell’azione; che sarebbe dunque un dono davvero grato quello dell’
«avventatezza» che meglio «ci serve / Quando le nostre profonde trame
falliscono» (Atto V, sc. 2).
Tutti vogliono che facciamo
qualcosa: pare che siamo stati messi al mondo già per quello: «La
società non sa che farsene dei nostri pensieri» (M. de Montaigne,
Saggi, vol. I, Milano1986), e anche questo è un pensiero
che trovi uguale in Hegel, però Montaigne continua: «ma quello
che resta…».
Resteremo soli – eroi per caso? –
con «domande rivolte alle domande» (C. Bene, Opere, Milano
2002); «Ogni pensiero è disperante, fatuo, sterile, e quindi solo
una sospensione del pensiero nell’agire sconsiderato avrebbe fatto di
lui un oggetto insensibile alla nevrosi fastidiosa della coscienza in
gramaglie. Un disagio dell’esserci è vivibile, è una convalescenza
dell’infinito; ma il disgusto del non esserci, per quanto impensabile,
è orrendo. Secoli e secoli di dottrine, a che? Ma certamente a
persuadere quest’io, sulle prime intrattabile, arrogante, non a
dimettersi completamente, a scomparire di scena, ma ad esser più
educato, più corretto, un po’ meno intransigente, tutto qui. Domani
altre correnti del pensiero prostituiranno tutto questo sforzo, e
quest’io, organizzato altro teatrino, darà ancora spettacolo centrale
del suo fasto idiota» (Ibid.).