«Tu sei un semplice mortale e perciò la tua mente deve ospitare due
pensieri alla volta.» (Bacchilide, Apollo ad Admeto, cit. in M.
Blanchot, L’infinito intrattenimento)
«…voi che constatate i disordini prodotti dal dubbio…»
(Cartesio,
Meditazioni metafisiche sulla filosofia prima, 1641)
«…io mi spavento
e stupisco di trovarmi qui piuttosto che là…» (B. Pascal, Pensieri)
«Essere o…»
(Amleto, Atto III, sc. 2)
Perché «o»? Da schizoidi
spontaneamente sottili, incapaci di equamente inique rasoiate alla
Ockham, cadiamo nella stessa trappola e facciamo conto di
scegliere le due cose insieme: l’essere e il non. Se
«ogni scelta comporta un’infelicità volontaria» (W. H. Auden,
Lezioni su Shakespeare) perché forzarsi? – La controscelta
invece della coincidentia oppositorum, una strategia
petrarchesca dell’ossimoro sistematico (Sonetto 134:
«Pace non trovo, et non ò da far guerra», con quel che segue)
potrebbe dunque coincidere col salvarsi la vita («L’uomo vive
dei suoi problemi e muore delle sue soluzioni», N. Gòmez Dávila,
In margine a un testo implicito, Milano 2001)! - «Ah, le
vecchie domande, le vecchie risposte, che c’è di più bello!» (S.
Beckett, Finale di partita), e anche in Beckett il problema
poteva apparire «una variazione di Amleto: crepare o non crepare,
questo è il problema» (T. W. Adorno, Tentativo di capire «Finale
di partita», in T. Beckett, Teatro completo, Torino 1994).
Ecco allora che s’intuisce subito
un intero ecosistema nell’epochè di quell’«o» tra
l’essere e il non, cerchietto più arduo d’una fede al dito, da
blandire e forzare per una indispensabile metamorfosi in «e»!
Così ragionano gli immedicabili, e cioè noi che « non ci atteniamo mai
al presente» (B. Pascal, Pensieri): quel tempo scemo che
pur andrebbe onorato.
Amleto, si sa, come tutti quelli
che hanno creduto troppo al papà, si sottovaluta. E si stracapisce.
Quando invece ha ciecamente intuito che vivere sarà proprio
infilarsi nel buco dell’«o» della fascistissima antitesi! Finché non
cade da topo nella trappola sua e degli eventi, Amleto predica male e
pratica benissimo: tenendo a bada – nevrosi beata! – l’uno e l’altro:
barcamenando la Società per Azioni e non Azioni dell’Essere & Non
Essere; ribadendo ilarodolente, la sua responsabilità sconfinatamene
limitata. - Il che dimostra quanto dolente e allo stesso tempo pieno
di grazia sia essere Hamlet, essere l’«o» che non
disgiunge i turbinii fraterni del Sì e del No: un guscio di noce
micro-infinito, tetragono e instabile come nessun’altra cosa. Avesse
resistito, avrebbe potuto diventare un Cioran («La mia forza
sta nel non aver trovato risposta a niente»), ovviamente del tutto
consapevole delle proprie strategie: primo, «E’ così difficile
guardare le cose in faccia, e così comodo attenersi ai problemi!»
(E. M. Cioran,
Quaderni. 1957-1972, Milano 2001);
secondo, «quando si sa che ogni problema è soltanto un falso
problema, si è pericolosamente vicini alla salvezza» (E. M. Cioran,
Il funesto demiurgo): che sarebbe poi cosa?
Viver di un’incerta vita
Or sperando ora temendo,
questa è morte, non è vita:
meglio val dare, morendo,
agli affanni via d’uscita.
Dunque più mi converrà
di finirla? No, non va,
che, a pensarci bene, sente
il timore la mia mente
di quel che di poi sarà.
(M. de Cervantes,
Don Chisciotte,
libro II, cap. XVIII)
Per l’Imitatio Hamleti si
riassume (ma chi ha mai bisogno di istruzioni per questo?):
lasciare pure alla Realtà, questa mamma così poco materna, la coda di
lucertola d’un proprio Io non più che obbediente e fittizio: «alla
fine accetta la scelta che gli è stata imposta. Ma l’accetta soltanto
nella sfera dell’atto, nell’azione. E’ impegnato, ma solo in ciò che
fa, non in ciò che pensa» (J. Kott, Shakespeare nostro
contemporaneo, Milano 2006). - E così, disobbedire
obbedendo, obbedire disobbedendo a tutto. Obbedire, ma a questo punto
è ovvio, disobbedendo alla propria disobbedienza stessa: può essere
che un certo rancore all’inizio aiuti, ma anche che alla fine
incateni.
Come si vede, c’è del metodo. - Non
facciamo distrarre dalle bizze del sarcasmo ozioso, sfogo infimo di
chi in fondo, benché principe, come un Calibano da bordello bestemmia
mentre esaudisce, ma non esaurisce, sé stesso Dio e il Mondo: «la
ribellione a Teo è ribellione alla realtà. Difficilmente è la realtà a
soffrirne. Nella storia dell’uomo le diserzioni dalla realtà hanno un
profilo clinico ben definito…» (A. Frassinetti e G. Manganelli,
Teo, in G. Manganelli, Tragedie da leggere, Torino 2005)
Per esempio, quando Amleto si pone
un quesito, non è meno d’un essere o non essere.
«Nella discussione si serve di
antitesi persuasive, di aut-aut categorici. Ecco perché si fa sempre
capire, non si preoccupa del rigore dei suoi discorsi.»
(K. Jaspers, Genio e follia,
Milano 2001: a proposito di August Strindberg)
Potrebbe del resto non finire qui,
non finire con una diagnosi: «Poiché sa che non si può
curare il destino, non si spaccia per guaritore con nessuno. La
sua unica ambizione: essere all’altezza dell’Incurabile» (E. M.
Cioran, La tentazione di esistere). Un Gadda
potrebbe visceralmente condividere, anche se mantiene fermo l’aut-aut:
«il non essere è adattarsi alla vita e alla turpe
contingenza del mondo, l’essere è agire, adempiere al
proprio incarico (alla propria missione) andando, sia pure, incontro
alla morte» (C. E. Gadda, I viaggi la morte). «Ma noi
siamo, non so come, doppi in noi stessi, e ciò fa che quello che
cediamo, non lo crediamo, e non possiamo disfarci di ciò che
condanniamo.»
(M. de Montaigne, Saggi,
vol. II, Milano 1986)
Chissà se Amleto ha fatto,
come uno dei laconici eroi di Conrad, questo:
«Non importa quello che hanno fatto di noi, importa solo quello che
noi abbiamo fatto di quello che hanno fatto di noi»
(A. Malraux, La condizione umana)