Don
Giovanni ha il volto della medusa. Di volta in volta fragilissime
maschere hanno cercato di risparmiarcelo – e sempre quel volto le
ha mandate in frantumi. Le retoriche intorno al libertino, al
dissoluto, al burlador, al seduttore – via via fino a quelle più
raffinate intorno al rapporto essenziale tra don Juan e
l’ipocrisia del mondo (Stendhal) o tra mondo estetico e angoscia
(Kierkegaard, Benjamin, ecc.) sono tutte un cantar di notte per
cacciare la paura. Ancora oggi, l’unico canto che invece
l’affronta è quello di Mozart. Qui si mostra, nella sua luce
tragica più piena, un meridiano forse per noi inoltrepassabile.
1787: l’inizio dei Fiche e degli Hegel, dei Gentile e degli
Heidegger, appare già come un compimento. L’essere non consiste
che nel suo realizzarsi.
L’amore
è “fare l’amore”. Non vi è amore che nel suo farsi.
Impossibile ridurre l’amore a idea, a pensato, a cogitatum. Amore
è pensare-in-atto, un pensare che è “co-agitare”, perenne
“agitarsi”, da nessun oggetto, nessuna natura, nessuna idea
trascendente mai imprigionabile. Filosofia della prassi, nel senso
più originario e radicale.
Idealismo,
attualismo e nichilismo colti all’origine, nella loro originaria
coappartenenza. Arrestarsi a contemplare una donna, questa donna,
sarebbe naturalismo, sarebbe dialettica della morte. L’amore non
consiste che nell’atto in cui “mi faccio” quella donna. Non
c’è altro modo di dirlo – educandi ed educande si accomodino
altrove. Negazione radicale del platonismo e perfetta indicazione
della linea su cui il nostro pensiero consiste, consapevole o no che
lo sia. Questo
il don Juan philosophus maxime.
(M.
CACCIARI, Impotenza di
un seduttore,
un numero di “L’Espresso”, di un po’ di anni fa, con
articoli per il “Don Giovanni” di Muti e Strehler alla Scala).