Altroché
se Kafka aveva idee chiare come editore. Da una lettera alla “Casa
Editrice Kurt Wolff” del 14 agosto 1916: “…in compenso chiedo
il piacere di far uscire La condanna in un volumetto a sé.
E’ vero che La condanna alla quale tengo in modo
particolare è molto breve, ma è anche più poesia che racconto,
quindi ha bisogno di molto spazio intorno a sé e merita che le sia
concesso”.
Poiché
ciò che si stampa è la figura grafica d’una voce che dice, come
uno spartito lo è di un canto. Quell’abbondare si spazio bianco
attorno a caratteri abbastanza grandi da far stare poche parole in
ogni riga, fa pensare a un certo rapporto che deve sempre esistere
tra la parola che si dice e il silenzio che non solo deve
accoglierla, ma che la parola stessa deve saper suscitare. La
faccenda del rapporto tra silenzio e parola è ovviamente un bel
rompicapo. Proprio su questo, del resto, Kafka concluse la sua
carriera e la sua vita. Vedi l’ultimo racconto, Josephin la
cantante e il popolo dei topi, dove si legge: “; noi si tace
come se avessimo ottenuto la pace sospirata che, se non altro, i
nostri stessi fischi ci precludono. Ci delizia il suo canto o non
piuttosto il solenne silenzio che circonda quella debole vocina?”
Sulla
faccenda di essere stampato in caratteri grandi, chiarissima una
pagina di Kundera:
“Il
desiderio di Kafka era giustificato, logico, serio, legato alla sua
estetica o, più concretamente, al suo modo di scandire la prosa.
L’autore
che dive il suo testo in tanti piccoli paragrafi non insisterà
troppo sulla grandezza del corpo: una pagina riccamente articolata
è di lettura abbastanza agevole.
Al
contrario, il testo che fluisce in un paragrafo infinito è assai
poco leggibile. L’occhio non trova luogo in cui sostare a
riposarsi. Per poter essere letto con piacere (vale a dire senza
fatica per gli occhi) un simile testo esige lettere relativamente
grandi, tali da rendere agevole la lettura e da consentire di
fermarsi in qualunque momento per assaporare la bellezza delle
frasi.”
(M.
Kundera, I testamenti traditi).