Col
tempo, la città finisce per sedurlo. Nelle “Passeggiate
romane”, geniale
guida turistica scritta tra il 1827 e il 1829,
l'atteggiamento di Stendhal è mutato: si immerge nell'atmosfera dei
suoi vicoli, nelle sale dei musei, dei palazzi, nell'ombra delle
Chiese. E non è solo la bellezza artistica ad attirarlo: scopre il
carattere appassionato dei romani, del popolo che ha “la forza di Giovenale unita alla follia dell'Aretino”. Non
l'aristocrazia romana, che gli
appare debole, immersa in una sterile voluttà, non
l'ipocrisia degli intellettuali, ma le persone che vivono per
strada, folli di vita e teneri in amore, giocosi, impulsivi, ai
quali basta un niente
– così nella sua mitizzazione - a scatenare risse e uccidere. Una
natura sanguigna e vitale, dovuta alla mancanza di
"educazione", all'isolamento secolare trascorso sotto il
ricatto papale. Passione e impeto,
che al lampo del coltello affiancano la felicità bambina
nell'ascoltare le musiche del “Barbiere
di Siviglia”, rappresentato al Teatro Argentina. Allora vi fu
una festa che durò tutta la notte, con banchetti, balli, canti:
Rossini fu portato in trionfo sulle spalle attraverso le vie. La
Roma pagana, dionisiaca, feroce era tutta lì.