"Il Compagno segreto" - Lunario letterario. Numero 9 dicembre 2004
Cechov, Céline, Bulgakof, Benn: I medicamenta del dottor Scrittura |
10. Gerghi, blablà, placebo
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“il tutto con gran prosopopea” (L. TOLSTOJ, Morte di Ivan Il’ič)
“Il medico deve parere molto da più di quanto è: quindi il gergo.” (C. Dossi, Note Azzurre)
Gran parlatori, i medici! Traduzione millenaria, fattasi prestigiosa “interrogando gli astri e le orine, con certi tèrmini strani e citazioni mezzo in linguaggio greco, mezzo in ebrèo, perchè, piuttosto che andare a cercare, vi si credesse sulla parola...” (C. DOSSI, Ritratti umani dal calamajo di un mèdico). Cosa pretendere, si potrebbe dire per addolcire? Sono in tempi in cui gli studi medici erano “unicamente rivolti alle parole ed ai delirj della immaginazione.” (P. VERRI, Osservazioni sulla tortura)! Ancora un attimo e, con la primavera dei microscopi e delle radiografie, tutto cambierà! - Non per il perfido Dossi: “oh non pensiàmolo manco!”, ché “non è l’inganno che muta, è il gergo” (C. DOSSI, Ritratti, op. cit.)!
Del resto, non è poi sempre detto che la cosa faccia il gran male che si pensa: guarendosi nella maggioranza dei casi grazie al “gran rimedio del nulla” (Ib.), può andar benissimo, nell’attesa fiduciosa della remissione, sentire un po’ di chiacchiere!
Che però spesso danno l’impressione di aver preso il posto della sapienza che invece dovrebbero solo manifestare. Ecco allora i dottori che “ipocritamente, nell’ombra indifferente, sono venuti a patto con la Morte. E se i più dotti si risvegliano ancora di tanto in tanto con sottili ragionamenti, è segno che hanno esaurito le modeste risorse dei loro modesti talenti…” (F. CÉLINE, Il dottor Semmelweis): vecchia figura di medici alla Molière che infilano perle di parole sul filo del nulla che in realtà saprebbero fare.
Con Céline, il dottor Čechov non può che concordare: “Se uno filosofeggia, vuol dire che non capisce” (Una storia noiosa), arrivando così a dire addirittura l’opposto di un frammento di Ippocrate secondo il quale “il medico che si fa filosofo diventa pari a un dio” (Il male sacro). Naturalmente, avranno ragione entrambi. Nella “filosofia della medicina”, però, almeno i due apprendisti Bouvard e Pécuchet, come sul sentiero delle buone intenzioni, “si smarrirono” (G. FLAUBERT, Bouvard e Pécuchet). Chissà gli altri.
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Da un blablà all’altro, per mirabolanti gincane dialettiche, si evitano guai e smentite che, almeno nei tempi lontanissimi, avrebbero avuto conseguenze terribili per i terapeuti (“se un medico distrugge un occhio di un aristocratico al medico sarà accecato il suo occhio”, ecc.: Codice di Hammurabi). - Così seppero fare, racconta Manzoni, i medici che negarono la peste a Milano, e che alla fine, di fronte all’atrocità dell’evidenza inventarono “un nome generico alla nuova malattia”: quella “trufferia di parole”, salvava però i medici ma a prezzo della pelle di tutti gli altri, ché “figurando di riconoscere la verità, riusciva ancora a non lasciar credere ciò che più importava di credere, di vedere, che il male s’attaccava per mezzo di contatto” (I promessi sposi). Anche dove non v’è “trufferia”, la faccenda dei nomi, e quindi del gergo, resta preò spinosa. Prendiamo una delle visite più celebri della letteratura mondiale:
Qui il paziente è in cima a quello che i filosofi chiamerebbero un albero di Profirio: scendendo da una diramazione all’altra, si può arrivare a qualunque cosa: tra la morte e la guarigione completa, dunque, attraverso un numero indefinibile di passaggî intermedî, lungo un percorso fatto di bivî ognuno dei quali sempre e comunque possibile, solo il tempo ci dirà cosa accadrà… da questo punto di vista, il medico è uno che assiste al realizzarsi di un “caso”, e che lo commenta.
Come si intuisce, per il paziente, la cosa potrebbe essere estremamente seccante (“Sì, è appunto il dottore, fresco, baldo, grasso e contento…” (L. TOLSTOJ, Morte di Ivan Il’ič). |
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