C’è
in Donne un’euforia, e una megalomania, amorosa, paragonabile
appena a quella di Dante, il quale, amando Beatrice, ama la Teologia
stessa, Bene autentico del mondo.
Le
poesie per Anne More sono Aleph lucenti in cui tutti gli amanti del
mondo devono convergere con sguardi stupiti: e
lì contemplarvi
perfezioni amorose di cui sono appena ombre anelanti. Dalla mistica Imitatio
Christi, dunque, alla
non meno struggente e impossibile Imitatio
d’un solo amore che ci si rivela perfetto.
Nella
stagione – qui lunga quanto un matrimonio! - dell’eros euforico
e dell’intimità , John Donne canta così il suo microcosmo
infinito, la monade in cui tutto l’universo trova quint’essenza
e rivelazione del proprio bene più puro: tutti gli altri amanti
attingano a questa lucente ampolla alchemica che nulla potrà mai
vuotare, e si riconoscono copie evanescenti di tanta Luce: è già
un bene quasi sovrumano esserne citazioni imprecise e sonnambule,
predizioni fetali d’una nascita a cui non perverranno mai su
questa terra.
…a
fare i sofisticati, è un caso di platonismo predicato e praticato
alla lettera e allo stesso tempo bestemmiato: Donne canta il suo
amore al quadrato come una scheggia di cosmica iperuranica
perfezione venuta miracolosamente indenne a luccicare sul nostro
opaco atomo di metafisico Male.