Lo stesso presidente Roosevelt intervenne contro il film, temendo che avrebbe potuto nuocere alle relazioni internazionali degli Stati Uniti. Chaplin ricevette talmente tante minacce da parte dei movimenti filonazisti americani, che discusse col capo del sindacato degli scaricatori, Harry Bridges, l’eventualità di invitare alcuni suoi rappresentanti alla prima del film «in caso di dimostrazioni filonaziste» (DAVID ROBINSON, Chaplin, un uomo chiamato Charlot). Il film, il primo in cui Chaplin parla, incassò 5 milioni di dollari, con un profitto di 1,5 milioni: «il primo film in cui parlò fu, per il genio del cinema muto, un trionfo a livello personale, professionale, politico ed economico» (CLAYTON R. KOPPES e GREGORY D. BLACK, Hollywood goes to war: how politics, profits, and propaganda shaped World War II movies). Su Chaplin identificato come “ebreo”, ancora più che per le sue origini, per aver inventato con il suo vagabondo un carattere che poteva essere visto come la più indimenticabile variazione dello Shlemiel: nel folklore ebraico il piccolo uomo semplice messo perennemente alla prova da una fortuna avversa (PATRICIA ERENS, The Jew in American Cinema).
(da: Francesco Carbone,Da Hitler a Casablanca (via Hollywood). Cineasti ebrei in fuga dal nazismo, Edizioni EUT, Trieste 2011)