In «un casamento da uomo fantastico e solitario» (G.
Vasari, Vita di Iacopo da Pontormo pittore fiorentino),
ciangottano rumori vaghi di stoviglie laconiche. Poi brevi scoli
intermittenti, passi disillusi e strascinati, respiri senili, tintinni
di cose buie, lasciate là dove hanno smesso di servire. Può accadere
che ogni tanto, in un silenzio dove senti - un acufene - la polverosa
clessidra dell’essere, il vecchio pittore annoti un
Diario fatto quasi solo
dall’elenco nudo dei giorni e dei pasti: «bollettini meticolosi,
ossessivi» di «puerili ricette», ché un uomo «più poveramente non
poteva mangiare» (Emilio Cecchi,
Postfazione a: Pontormo, Diario).
Affascina e fa pudìco lo spione di questo tronco residuo di diario
proprio il deserto di emozioni e di pensieri. - Per questo genio
ardito e astratto, splenetico e avventuroso, non ci sono che cose,
e le cose sono poche: il cibo, la merda, la pittura, le visite di rari
amici neppure sempre ammessi.
Un’anima zen gioirebbe di tanta senile selvatica purezza, di questo
Tao refrattario e demente. Mentre Vasari
nel vecchio Pontormo vede solo i segni estremi d’una «stranezza»
congenita, d’una «ghiribizzosa maniera» di vivere, tanto da ingoiarne
il talento, soprattutto per l’ostinarsi a «trapassare (…) tutte le
pitture dell’arte», e a «strafare», sforzando la Natura a forme
bislacche, a composizioni mai prima vedute…