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«..giovedì sera una minestra di buono
castrone e insalata di barbe.
Venerdì sera insalata di barbe e due huova
in pesce d’uovo.
Sabato digiuno. Domenica sera, che fu la
sera dell’ulivo, cenai un poco di castrone lesso e mangiai un poco
d’insalata, e dovetti mangiare da tre quarti di pane.
Lunedì sera…»
(Pontormo, Diario, Abscondita 2005)
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In «un casamento da uomo fantastico e solitario» (G.
Vasari, Vita di Iacopo da Pontormo pittore fiorentino),
ciangottano rumori vaghi di stoviglie laconiche. Poi brevi scoli
intermittenti, passi disillusi e strascinati, respiri senili, tintinni
di cose buie, lasciate là dove hanno smesso di servire. Può accadere
che ogni tanto, in un silenzio dove senti - un acufene - la polverosa
clessidra dell’essere, il vecchio pittore annoti un
Diario fatto quasi solo
dall’elenco nudo dei giorni e dei pasti: «bollettini meticolosi,
ossessivi» di «puerili ricette», ché un uomo «più poveramente non
poteva mangiare» (Emilio Cecchi,
Postfazione a: Pontormo, Diario).
Affascina e fa pudìco lo spione di questo tronco residuo di diario
proprio il deserto di emozioni e di pensieri. - Per questo genio
ardito e astratto, splenetico e avventuroso, non ci sono che cose,
e le cose sono poche: il cibo, la merda, la pittura, le visite di rari
amici neppure sempre ammessi.
Un’anima zen gioirebbe di tanta senile selvatica purezza, di questo
Tao refrattario e demente. Mentre Vasari
nel vecchio Pontormo vede solo i segni estremi d’una «stranezza»
congenita, d’una «ghiribizzosa maniera» di vivere, tanto da ingoiarne
il talento, soprattutto per l’ostinarsi a «trapassare (…) tutte le
pitture dell’arte», e a «strafare», sforzando la Natura a forme
bislacche, a composizioni mai prima vedute…
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Né
Pontormo avrebbe negato: arrovellato in un platonismo ancora più
sperimentale e selvaggio dell’indagatissimo
Michelangelo («le arti non imitano direttamente il mondo
visibile; risalgono, invece, ai principii da cui viene l’ordine della
natura, e molte cose esse creano da sé…»
Plotino, Del Bello), era certo che la Natura
non fosse da imitare ma da correggere. – La Natura è latrice di forme
grezze, di pepite terrose in cui l’oro è quasi solo un’ipotesi: le sue
sagome vanno indagate come pretesti, alchemizzandone l’imperfezione
per la liberazione di quintessenze migliori, insospettabili a
un occhio nudo, non intellettualmente risvegliato:
Baudelaire avrebbe applaudito.
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Il tempo del
Diario rimasto – gli ultimi
tre anni di vita – di questo Geppetto laconico e tetro sono occupati dal
ciclo di affreschi di san Lorenzo a Firenze: dieci anni di lavoro
solitario e introverso, che non solo Vasari non comprese. Di tanta
avventura non ci resta nulla, infatti, poiché gli affreschi furono
coperti senza dolore da posteri ciechi perché sicuri del gusto loro.
Ma senza queste ciance: con un genio su cui non ha da interrogarsi più
che sul gesto di un cucchiaio nella zuppa, Pontormo dipinge defeca e
mangia. Pare tenere tutto sullo stesso piano. E lascia nel diario una
voce minima come un ultimo nastro Krapp:
Giovedì mattina cacai due stronzoli non
liquidi, e drento n’usciva che se fusimo lucignoli lunghi di bambagia,
cioè grasso bianco; e assai bene in San Lorenzo e fini’ la figura.
Venerdì pesce e uno huovo.
…tutto
come se la vita davvero stesse dentro lo sguardo sfingeo e analitico
di Leonardo (anche per la sua
bottega il giovane Pontormo passò) che contemplò l’uomo come «transito
e condotto di cibo, sepoltura di animali, albergo de’ morti» e «guaina
di corruzione» (Leonardo da Vinci, Favole
e facezie).
Pontormo, che dipinge santi e profeti ma non prega mai, col suo elenco
di disegni e di frittate pare dire: già. Poi annota mezze righe
di amnesie in sé sospese: «Martedì in casa feci non so che».
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P.S.
Altro genio tra i Nati sotto il segno di
Saturno (R. e M. Wittkower, Einaudi, 1963), Piero Cosimo
fu maestro tra i principali di Pontormo.
A lui
pare legato da un
filum diretto di misantropia e stravaganza
anche culinaria. Vasari gli dedica
una delle Vite più belle.
Da lì impari che,
«fantastico» e talentuoso quanto l’allievo, Piero
visse quasi solo di
«spirito filosofico» e di uova:
ova sode, che per risparmiare il fuoco, le
coceva quando faceva bollir la colla; e non sei o otto per volta, ma
una cinquantina, tenendole in una sporta, che consumava a poco a poco
(G. Vasari, Piero Cosimo)
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