«Qualcuno ha
detto molto giustamente: «Io sono quello che non ho fatto»
(E. M. Cioran,
Quaderni. 1957-1972, Milano 2001)
«Trovare
non è
niente.
Il
difficile
è
aggiungere
a
se
stessi
quello
che
si
trova.»
(Paul
Valéry)
Facendo un tutt’uno di moventi
reali e fittizi, le cose trovano sempre il pretesto per accadere.
Faccenda inesorabile ma tutt’altro che ovvia e che, non solo perché
quasi mai i fatti coincidono con noi stessi, può farci
sospettare e allucinare, come ad Amleto, improvvisi gorghi di
fatalità.
Come in una bella poesia di
Enzensberger (Canzoncina ottimistica, in Più
leggeri dell’aria, Torino 2001), pare però che il meglio di se
stessi gli uomini lo diano quando, orfani di ogni destino, non fanno
niente di particolare: «…quando il fatto è compiuto, quando l’opera
delle tenebre è perfezionata, il mondo delle tenebre dilegua come una
visione tra le nubi. Si ode allora bussare alla porta, e viene reso
noto in modo chiaramente udibile che è cominciata la reazione. L’umano
riprende a fluire là dove s’era accampato il demoniaco; il polso della
vita comincia a battere di nuovo. E il ristabilirsi dei traffici del
mondo in cui viviamo ci rende profondamente sensibili della spaventosa
parentesi che si era aperta per sospenderli» (T. De Quincey, On
the knocking at the gate of Macbeth).
Varrà anche come elogio di
Fortebraccio?