«Egli rifletté
sui piaceri derivanti dalla letteratura istruttiva anziché da quella
amena, poiché egli stesso si era rivolto più di una volta alle opere
di William Shakespeare per la soluzione di problemi difficili della
vita, immaginaria o reale.»
(J. Joyce,
Ulisse)
«Personalmente
detesto l’azione.»
(J. Joyce,
Ulisse)
«…ciò che non
vogliamo.»
(E. Montale,
Ossi di seppia, 1925)
«Ma appare lo spettro e scatta la
domanda tragica: che fare?» (N. D’Agostino, Nota a W. Shakespeare,
Amleto, Milano 2004). Koan terribile, non solo
nella nostra vita sparuta ma – nel modo più radicale e vero - in tutto
Shakespeare, e lì contemplabile come in uno sferico aleph che
tutto contiene.
«In Shakespeare, come in tutti i
grandi scrittori mimetici, l’indecibilità è la regola» (R. Girard,
Shakespeare. Il teatro dell’invidia, Milano 2002).
Shakespeare sa che l’azione, l’obbligatorio inevitabile fare,
è favorito da una, non solo non emendabile ma necessaria ignoranza del
mondo e di se stessi. L’operoso Fare ama più di Eros della Giustizia e
della Fortuna essere cieco, quanto meno di una cecità funzionale al
suo proprio fare: cieco quanto basta a non impazzire di scrupoli e di
possibilità: ciechi, dunque, quasi del tutto. Cuore di tenebra
è insomma il cuore dell’azione. Il sempre amato Occidente è
qui, onnipresente e onnivoro, a dimostrarlo: al sapere
corrisponde una paresi dell’azione pensata la quale, nel caso utopico
di una Sapienza Suprema, porterebbe alla perfezione muta d’un’inazione
senza scampo. (E, teologizzando, a certe idee magari non più bislacche
di altre su come possa essere abissalmente ozioso il tempo di Dio).
Su «la
necessaria sciocchezza»
(Tutto è bene quel che finisce bene, At. I, sc. 3)
dell’energumena azione, si può naturalmente ironizzare: «Io vedo
sempre che una diminuzione / nel cervello del nostro capitano gli
rende coraggio» (W. Shakespeare, Antonio e Cleopatra, Atto
III, sc. 13). Se invece si cincischia, si querula e si dibatte, si
disfa in quattr’e quattr’otto il neppure fatto, l’appena abbozzato nel
pensiero. Amleto lo dice in ogni scena! Tutt’un fare
«per Ecuba», «per nulla», per un fazzoletto sterile e deserto di
Polonia, e, soprattutto, tutt’un fare per sbaglio. Emerge, guardando
da questo scorcio tutta la tragedia, la figura di Claudio che, avendo
già fatto prima, molto saggiamente rinuncerebbe a qualunque
altro fare…
Ma è anche vero che «se le nostre
virtù non si propagassero fuori di noi, sarebbe lo stesso che se non
le avessimo» (Misura per misura Atto I, sc. 1). Stesso
ragionamento in Amleto quando si dice quale entelechia possa avere la
ragione se non nel fare:
«Di certo colui che ci fece con
un così ampio intendimento atti a guardare innanzi e indietro, non ci
diede questa capacità e divina ragione perché ammuffisse in noi non
usata. Ora, che sia bestiale oblio, o un codardo scrupolo di pensare
troppo minutamente alla riuscita – un pensiero che diviso in quarti
non ha che una parte di saggezza, e ben tre parti di codardia – io non
so perché ancora io viva per dire «Questa cosa s’ha da fare» dal
momento che io ho cagione e volontà, e forza, e mezzi per farla…»
(Amleto, atto IV, 4)
L’entelechia del pensare è il fare,
come della sapienza la saggezza. Che senso avrebbe un eureka se
restasse a rinsecchirsi nella testa del suo ospite come il genio in
una lampada che mai trovi il suo Aladino? Certo, ci tenterà l’ignavo,
sarà tutto comunque pappa del Tempo,
«i cui infiniti accidenti / rompono
i giuramenti e cambiano i decreti dei re, / sconciano la sacra
bellezza, spuntano i più affilati intenti», e fanno di un ti amo
il suo contrario (Sonetto 115). Ma non per il tempo si
travaglia.