"Il Compagno segreto" - Lunario letterario.Numero 12, settembre 2007 

 


n. 12 °*° W. Shakespeare : Fantasmi di Amleto  °*° n. 12

2.  Che fare?

 


«Egli rifletté sui piaceri derivanti dalla letteratura istruttiva anziché da quella amena, poiché egli stesso si era rivolto più di una volta alle opere di William Shakespeare per la soluzione di problemi difficili della vita, immaginaria o reale.»

(J. Joyce, Ulisse)

 

«Personalmente detesto l’azione.»

(J. Joyce, Ulisse)

 

«…ciò che non vogliamo.»

(E. Montale, Ossi di seppia, 1925)

 

 

 

«Ma appare lo spettro e scatta la domanda tragica: che fare?» (N. D’Agostino, Nota a W. Shakespeare, Amleto, Milano 2004)Koan terribile, non solo nella nostra vita sparuta ma – nel modo più radicale e vero - in tutto Shakespeare, e lì contemplabile come in uno sferico aleph che tutto contiene.

«In Shakespeare, come in tutti i grandi scrittori mimetici, l’indecibilità è la regola» (R. Girard, Shakespeare. Il teatro dell’invidia, Milano 2002). Shakespeare sa che l’azione, l’obbligatorio inevitabile fare, è favorito da una, non solo non emendabile ma necessaria ignoranza del mondo e di se stessi. L’operoso Fare ama più di Eros della Giustizia e della Fortuna essere cieco, quanto meno di una cecità funzionale al suo proprio fare: cieco quanto basta a non impazzire di scrupoli e di possibilità: ciechi, dunque, quasi del tutto. Cuore di tenebra è insomma il cuore dell’azione. Il sempre amato Occidente è qui, onnipresente e onnivoro, a dimostrarlo: al sapere corrisponde una paresi dell’azione pensata la quale, nel caso utopico di una Sapienza Suprema, porterebbe alla perfezione muta d’un’inazione senza scampo. (E, teologizzando, a certe idee magari non più bislacche di altre su come possa essere abissalmente ozioso il tempo di Dio).

 

 

Su «la necessaria sciocchezza» (Tutto è bene quel che finisce bene, At. I, sc. 3) dell’energumena azione, si può naturalmente ironizzare: «Io vedo sempre che una diminuzione / nel cervello del nostro capitano gli rende coraggio» (W. Shakespeare, Antonio e Cleopatra, Atto III, sc. 13). Se invece si cincischia, si querula e si dibatte, si disfa in quattr’e quattr’otto il neppure fatto, l’appena abbozzato nel pensiero. Amleto lo dice in ogni scena! Tutt’un fare «per Ecuba», «per nulla», per un fazzoletto sterile e deserto di Polonia, e, soprattutto, tutt’un fare per sbaglio. Emerge, guardando da questo scorcio tutta la tragedia, la figura di Claudio che, avendo già fatto prima, molto saggiamente rinuncerebbe a qualunque altro fare…

 

Ma è anche vero che «se le nostre virtù non si propagassero fuori di noi, sarebbe lo stesso che se non le avessimo» (Misura per misura Atto I, sc. 1). Stesso ragionamento in Amleto quando si dice quale entelechia possa avere la ragione se non nel fare:

 

«Di certo colui che ci fece con un così ampio intendimento atti a guardare innanzi e indietro, non ci diede questa capacità e divina ragione perché ammuffisse in noi non usata. Ora, che sia bestiale oblio, o un codardo scrupolo di pensare troppo minutamente alla riuscita – un pensiero che diviso in quarti non ha che una parte di saggezza, e ben tre parti di codardia – io non so perché ancora io viva per dire «Questa cosa s’ha da fare» dal momento che io ho cagione e volontà, e forza, e mezzi per farla…»

 (Amleto, atto IV, 4)

 

L’entelechia del pensare è il fare, come della sapienza la saggezza. Che senso avrebbe un eureka se restasse a rinsecchirsi nella testa del suo ospite come il genio in una lampada che mai trovi il suo Aladino? Certo, ci tenterà lignavo, sarà tutto comunque pappa del Tempo,  «i cui infiniti accidenti / rompono i giuramenti e cambiano i decreti dei re, / sconciano la sacra bellezza, spuntano i più affilati intenti», e fanno di un ti amo il suo contrario (Sonetto 115). Ma non per il tempo si travaglia.


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