CLAUDIO - …ma voi dovete saperlo, vostro padre perse un padre, quel
padre perduto perse il suo; e il sopravveniente è tenuto come obbligo
filiale per un certo termine a far esequie di dolore; ma il
perseverare in un’ostinata doglianza è un procedere d’empia caparbietà
(…). Ohibò! È una colpa verso il cielo, una colpa contro i morti, una
colpa verso la natura, quanto mai assurda verso la ragione, il cui
tema usuale è la morte dei padri, e che sempre ha gridato dal primo
cadavere fino a colui che è morto oggi: «Così dev’essere».
(Atto I, scena 2).
«Ma non sono mai i forti, sono i deboli che mirano al potere e lo
raggiungono, per l’effetto combinato dell’astuzia e del delirio.»
(E. M. Cioran, La caduta nel tempo)
Non sottovalutare Claudio: cosa
necessaria assolutamente per una buona goduria dell’Amleto: «se
riuscissimo a scordare come Claudio sia diventato re, vedremmo in lui
ciò che tutti, tranne Amleto e Orazio, vedono: un monarca forte e
affascinante» (N. Frye, Shakespeare, Torino 1990),
tutt’altro che inetto a confezionare e guarnire «la polpetta avariata
del discorso» (C. Bene, Opere, Milano 2002). E
speculativo, perfino. Per esempio: come non sobbalzare di fronte a
questa sua definizione della ragione: ciò «il cui tema usuale è la
morte dei padri»? - Per un re testè incoronato, che avrebbe bisogno di
un discorso solo furbo, di una concione alla presidente della
repubblica la sera di fine anno, questi ictus metafisici fanno
sospettare una caratura intellettuale e un amore del rischio
metafisico tutt’altro che indegne del maldispostissimo figliastro. E
anche non escludendo che Claudio sia un genio per caso, e che sia il
linguaggio – Shakespeare! – a inopinatamente straparlare per lui,
ovviamente a un lettore basta.
E dunque per il nuovo re la ragione
è ciò che per costume “usuale” si coltiva non della partita doppia,
della geometria di Euclide o del Principe di
Machiavelli, ma sulla morte dei padri: è allora, e
sorprendentemente per un re, una ragione dell’inevitabile. - Una
ragione pura e non pratica: una contemplazione delle cose che niente
muteranno mai. – Ora, se logos e techne sono, nel cuore
del pensiero greco da cui tutti noi nasciamo, affratellati dalla
certezza di un ragionevole miglioramento del mondo, anche questa
«ragione» trova un limite nell’inevitabile. Ma per Claudio questo
luogo di meditazione disarmata non è il bordo estremo e periferico di
un pensiero per il resto capace di senno e controllo, la cui
«sovranità» per esempio Orazio teme che Amleto perda al cospetto del
fantasma (Atto I, sc. 4), che Ofelia vedrà perduta
davvero (Atto III, sc. 1), e soprattutto che Amleto stesso si
racconta come il dono che Dio ha fatto agli uomini perché essi a loro
volta facciano («Di certo colui che ci fece con un così ampio
intendimento atti a guardare innanzi e indietro, non ci diede questa
capacità e divina ragione perché ammuffisse in noi non usata», Atto
IV, sc. 4)… Claudio, al fondo di se stesso, sta da un’altra parte:
nella frequentazione isolata e incomunicabile della morte dei padri,
nelle preghiere impossibili perché senza pentimento (Atto III, sc.
3), nelle angosce senza compagnia di chi si sente tenuto alla
logica infinibile del delitto, che però compie sempre senza gioia. –
Sarà anche lui, come Giovanni, un altro «re senza terra»?
Non meno che per certi pensieri di
Amleto, la figura adeguata pare trovarsi nella Malinconia
düreriana, che guarda introversamente chissà cosa – la morte del
padre? – mentre tutti gli ordigni dell’ingegno umano son lasciati a
terra negletti… Questa ragione, interiormente contemplando, con un
pudore che il dissonante Amleto nega a sé e agli altri, si educa così
a farsi una ragione di ciò che non è ne ragionevole né il suo
contrario: della morte, che appunto «è» e che – ecco un salto a cui
quale tentazione fa cedere? - «deve essere».
Ragione come rassegnazione. Ragione
come ciò che impara a sue spese la tautologia dolente dell’è ciò che
è, - sempre più difficile chiamarlo «Dio» (Esodo, 3, 14),
nell’impossibilità di chiedersi davvero perché.
La morte insegna alla ragione ciò
che essa è e ciò che essa può. Di per sé non è niente; ciò che in
compenso può è praticare un’accorta e perenne censura in sé del lutto.
La ragione deve governare il progressivo incistarsi del lutto in una
luogo psichico segreto e incomunicabile. Solo questo permetterà la
ripresa della vita, e il sacro dovere di onorare il Presente. Come non
essere d’accordo con chi sostiene che «i morti han diritto a un
cordoglio moderato, il dolore eccessivo è nemico dei vivi» (Tutto
è bene quel che finisce bene, At. I, sc. 1)? - Non solo ogni
regale cultore dell’anglosassone understatement e della privacy
pudicissima, ma lo stesso Freud applaudirebbe in prima fila: se
fosse stato lì, avrebbe dato una mano alla neo-famiglia per educare il
figliastro neghittoso a sublimare – potrebbe essere la parola chiave -
il suo «intendimento semplice e non disciplinato» (sempre Atto I,
sc. 2).
Conclusione: Claudio annichila
Amleto, tanto da poter finire la sua tirata con una generosità
impossibile non solo per re Macbeth ma per quasi tutti: “che il mondo
lo sappia, voi siete il più immediato erede del mio trono…” (Ibid.).
Si sa bene che la generosità con l’avversario è la prova di una
vittoria senza margini di discussione possibile. Del resto, a Claudio
basta, ma su questo si dovrà tornare, il presente: essere un re
putativo, l’innocuo re del momento. Un re doroteo (se fossimo ancora
in tempi di prima repubblica magari almeno questo si capirebbe).
Claudio, malgrado l’abnorme libidine per la sposa, non inaugurerà una
stirpe: sebbene lubrìco, gli basta vivere da san Giuseppe di Amleto e
della Danimarca.