"Il Compagno segreto" - Lunario letterario.Numero 12, settembre 2007 


n. 12 °*° W. Shakespeare : Fantasmi di Amleto  °*° n. 12

1.  Il logos del patrigno

 


 

CLAUDIO - …ma voi dovete saperlo, vostro padre perse un padre, quel padre perduto perse il suo; e il sopravveniente è tenuto come obbligo filiale per un certo termine a far esequie di dolore; ma il perseverare in un’ostinata doglianza è un procedere d’empia caparbietà (…). Ohibò! È una colpa verso il cielo, una colpa contro i morti, una colpa verso la natura, quanto mai assurda verso la ragione, il cui tema usuale è la morte dei padri, e che sempre ha gridato dal primo cadavere fino a colui che è morto oggi: «Così dev’essere».

(Atto I, scena 2).

 

«Ma non sono mai i forti, sono i deboli che mirano al potere e lo raggiungono, per l’effetto combinato dell’astuzia e del delirio.»

(E. M. Cioran, La caduta nel tempo)

 

 

 

Non sottovalutare Claudio: cosa necessaria assolutamente per una buona goduria dell’Amleto: «se riuscissimo a scordare come Claudio sia diventato re, vedremmo in lui ciò che tutti, tranne Amleto e Orazio, vedono: un monarca forte e affascinante» (N. Frye, Shakespeare, Torino 1990), tutt’altro che inetto a confezionare e guarnire «la polpetta avariata del discorso» (C. Bene, Opere, Milano 2002). E speculativo, perfino. Per esempio: come non sobbalzare di fronte a questa sua definizione della ragione: ciò «il cui tema usuale è la morte dei padri»? - Per un re testè incoronato, che avrebbe bisogno di un discorso solo furbo, di una concione alla presidente della repubblica la sera di fine anno, questi ictus metafisici fanno sospettare una caratura intellettuale e un amore del rischio metafisico tutt’altro che indegne del maldispostissimo figliastro.  E anche non escludendo che Claudio sia un genio per caso, e che sia il linguaggio – Shakespeare! – a inopinatamente straparlare per lui, ovviamente a un lettore basta.

 

E dunque per il nuovo re la ragione è ciò che per costume “usuale” si coltiva non della partita doppia, della geometria di Euclide o del Principe di Machiavelli, ma sulla morte dei padri: è allora, e sorprendentemente per un re, una ragione dell’inevitabile. - Una ragione pura e non pratica: una contemplazione delle cose che niente muteranno mai. – Ora, se logos e techne sono, nel cuore del pensiero greco da cui tutti noi nasciamo, affratellati dalla certezza di un ragionevole miglioramento del mondo, anche questa «ragione» trova un limite nell’inevitabile. Ma per Claudio questo luogo di meditazione disarmata non è il bordo estremo e periferico di un pensiero per il resto capace di senno e controllo, la cui «sovranità» per esempio Orazio teme che Amleto perda al cospetto del fantasma (Atto I, sc. 4), che Ofelia vedrà perduta davvero (Atto III, sc. 1), e soprattutto che Amleto stesso si racconta come il dono che Dio ha fatto agli uomini perché essi a loro volta facciano («Di certo colui che ci fece con un così ampio intendimento atti a guardare innanzi e indietro, non ci diede questa capacità e divina ragione perché ammuffisse in noi non usata», Atto IV, sc. 4)… Claudio, al fondo di se stesso, sta da un’altra parte: nella frequentazione isolata e incomunicabile della morte dei padri, nelle preghiere impossibili perché senza pentimento (Atto III, sc. 3), nelle angosce senza compagnia di chi si sente tenuto alla logica infinibile del delitto, che però compie sempre senza gioia. – Sarà anche lui, come Giovanni, un altro «re senza terra»?

 

 

Non meno che per certi pensieri di Amleto, la figura adeguata pare trovarsi nella Malinconia düreriana, che guarda introversamente chissà cosa – la morte del padre? – mentre tutti gli ordigni dell’ingegno umano son lasciati a terra negletti… Questa ragione, interiormente contemplando, con un pudore che il dissonante Amleto nega a sé e agli altri, si educa così a farsi una ragione di ciò che non è ne ragionevole né il suo contrario: della morte, che appunto «è» e che – ecco un salto a cui quale tentazione fa cedere?  - «deve essere».

Ragione come rassegnazione. Ragione come ciò che impara a sue spese la tautologia dolente dell’è ciò che è, - sempre più difficile chiamarlo «Dio» (Esodo, 3, 14), nell’impossibilità di chiedersi davvero perché.

 

La morte insegna alla ragione ciò che essa è e ciò che essa può. Di per sé non è niente; ciò che in compenso può è praticare un’accorta e perenne censura in sé del lutto. La ragione deve governare il progressivo incistarsi del lutto in una luogo psichico segreto e incomunicabile. Solo questo permetterà la ripresa della vita, e il sacro dovere di onorare il Presente. Come non essere d’accordo con chi sostiene che «i morti han diritto a un cordoglio moderato, il dolore eccessivo è nemico dei vivi» (Tutto è bene quel che finisce bene, At. I, sc. 1)? - Non solo ogni regale cultore dell’anglosassone understatement e della privacy pudicissima, ma lo stesso Freud applaudirebbe in prima fila: se fosse stato lì, avrebbe dato una mano alla neo-famiglia per educare il figliastro neghittoso a sublimare – potrebbe essere la parola chiave - il suo «intendimento semplice e non disciplinato» (sempre Atto I, sc. 2).

 

Conclusione: Claudio annichila Amleto, tanto da poter finire la sua tirata con una generosità impossibile non solo per re Macbeth ma per quasi tutti: “che il mondo lo sappia, voi siete il più immediato erede del mio trono…” (Ibid.). Si sa bene che la generosità con l’avversario è la prova di una vittoria senza margini di discussione possibile. Del resto, a Claudio basta, ma su questo si dovrà tornare, il presente: essere un re putativo, l’innocuo re del momento. Un re doroteo (se fossimo ancora in tempi di prima repubblica magari almeno questo si capirebbe). Claudio, malgrado l’abnorme libidine per la sposa, non inaugurerà una stirpe: sebbene lubrìco, gli basta vivere da san Giuseppe di Amleto e della Danimarca.

 


 torna a  

torna su