«Nelle sue opere Conrad
nomina Shakespeare soltanto due volte. Una volta, parafrasando
il Macbeth, definisce questo dramma shakespeariano
di cui non nomina il titolo, come “un racconto simile alla vita,
pieno di vento e di rumore, che non significa nulla.” Macbeth,
nell’ultima scena del dramma dice che la vita è “una favola
raccontata da un idiota, piena di rumore e di furore, che non
significa nulla” (V, 5). In Lord Jim il
narratore trova a Patusan, tra le poche cose di Jim, un’edizioncina
economica di Shakespeare. Domanda a Jim se lo legga, e si sente
rispondere: “Già, non c’è niente di meglio per tirar su il
morale”. “Questa scena mi colpì”, commenta Marlowe, “ma non
c’era tempo per mettersi a discutere di Shakespeare”.
Tuttavia tra le confessioni
personali di Conrad trovo una frase che, a parer mio, si
avvicina molto all’interpretazione in chiave amara de La
Tempesta e alla saggia maturità di Prospero. Conrad
scrive: “La visione etica del mondo finisce per trascinarci in
una tale serie di contraddizioni crudeli e insensate, che anche
gli ultimi resti di fede, di speranza, di amore e persino di
ragione, sembrano destinati a svanire. Sarei piuttosto propenso
a credere che il mondo non sia altro che uno spettacolo, che
deve suscitare, a seconda delle preferenze, spavento, amore,
ammirazione o odio, ma mai disperazione. Queste visioni amabili
o dolorose costituiscono uno scopo morale già di per sé. Il
resto è affar nostro…»
Nel suo ultimo monologo,
Prospero pronuncia la parola “disperazione”. “And my
ending is dispair”. Ma è una disperazione che non è
rassegnazione. D’altronde, la frase-chiave che permette di
comprendere profondamente La Tempesta, è un’altra.
Sta in un’altra tragedia, ma vi risuona lo stesso
penetrante accento personale che permea l’ultimo monologo di
Prospero: Dice: “La mia desolazione comincia a creare una vita
migliore” (Antonio e Cleopatra, V, 2).»
(J.
Kott, Shakespeare nostro contemporaneo, Milano 2006)