«Amleto è il principe e cortigiano del Castiglione, gran dilettante e
competente delle arti.»
(N. D’Agostino,
Nota a W. Shakespeare, Amleto, Milano 2004).
«E il colto dell’epoca di Shakespeare, per ciò che riguarda i
principî morali, era atteggiato secondo un modello pagano-umanistico
che si prefiggeva come scopo una perfezione morale ignara delle virtù
cardinali cristiane della pietà e dell’umiltà, nonché della cardinale
dottrina cristiana della natura peccaminosa e decaduta dell’uomo. Come
si conciliava quest’atteggiamento con la religione cristiana? Ha
osservato Giulio Preti nell’edizione del Cortegiano
curata per “Millenni” Einaudi, che in codest’opera, “si ha
il senso di un’umanità attiva e volta alla gloria del mondo, il senso
di una cultura ‘mondana’, non rivolta alla salvazione dell’anima o
all’estasi mistica, ma al servizio concreto dei reali interessi
dell’umanità. Singolare a questo proposito è la posizione del dogma
religioso nella costruzione del Cortegiano: il
Castiglione – sappiamo da altri scritti e da quanto trapela in
questa stessa opera – è uomo pio, di chiusa e rigida ortodossia;
eppure… tranne qualche cenno, in tutta la costruzione del suo dialogo
la religione è rigidamente messa da parte… Come presso tutti gli
umanisti… il piano della sapienza mondana e il piano del dogma
religioso accettato fondamentalisticamente, per fede (e forse, più che
per fede, per tradizione) vengono rigidamente separati. La filosofia
del Cortegiano… si muove su un terreno unicamente
umano.”
E’ la poca familiarità che si ha oggi con questa posizione
d’ambivalenza, e con la facilità con cui gli uomini di allora si
spostavano da un sistema di valori pagano-umanistici a un altro
derivante dalla tradizione cristiana, senza preoccuparsi di conciliare
le contraddizioni, è il non rendersi conto di ciò che ci ha fatto
pensare che Shakespeare non si sia mai messo al servizio di nessuna
tesi, che ha indotto taluni a vedere in Re Lear (e tra
costoro è il Kott) un messaggio di sconsolato nichilismo, ed
altri una parabola cristiana, e molti a ritenere che il sostrato
ideologico dell’epoca elisabettiana fosse inconsistente.»
(…)
«Forte senso della gerarchia sociale, virili virtù di fortezza
e costanza che non escludevano scoppi d’ira magnanima, sete d’onore e
di magnificenza, desiderio di continuità sia attraverso la specie che
attraverso la fama postuma (motivi ricorrenti nei Sonetti),
deificazione accettata come convenzione poetica, esaltazione della
lealtà e dell’amicizia, la pubblica ignominia ritenuta la peggior
disgrazia che possa capitare a un uomo, giustificazione del suicidio e
del duello ed esigenza di morire in modo esemplare: questi sono i
valori positivi che direttamente o indirettamente Shakespeare aveva
assorbito dalla cultura dell’età sua.»
(…)
«Quando avvertiamo questa stessa concezione del mondo in uno
scrittore del nostro Rinascimento, essa ci annoia per la sua banalità;
ma Shakespeare l’ha saputa investire con tale complessità d’intuizione
dell’animo umano, da riflettere non solo l’uomo della sua età, ma
l’uomo di sempre: onde nei suoi personaggi tendiamo a leggere solo noi
stessi, e quel che di loro ci sfugge non pensiamo di ricollegarlo ad
altro, e parliamo di Shakespeare come di una sfinge.»
(M. Praz, Prefazione a J. Kott, Shakespeare nostro
contemporaneo, Milano 2006)