«C’è stato un tempo in cui, quando il cervello
Usciva dal cranio, l’uomo moriva
E tutto era finito…»
(Macbeth, Atto III, sc. 4)
«Addormentato? Non importa; godi la melliflua e pesante rugiada del
sonno: tu non hai né gl’immaginari spettri, né le fantasie che le
affaccendate cure infiltrano nella mente degli uomini…»
(Giulio Cesare, Atto II, sc. 1)
«Se a
qualcuno dovesse apparire strano che noi non evochiamo, come gli
antichi, un deus ex machina, ma uno spirito dalla tomba, costui
consideri quel si che scrive di continuo intorno agli spiriti.»
(Gryphius,
Prefazione a Cardenio und Celinde)
«Momento spettrale, un momento che
non appartiene più al tempo, se con questo nome si intende la
connessione dei presenti modalizzati (presente passato, presente
attuale: “adesso”, presente futuro). Noi domandiamo in questo istante,
ci interroghiamo su questo istante che non è docile al tempo, almeno a
ciò che chiamiamo così. Furtiva e intempestiva, l’apparizione dello
spettro non appartiene a quel tempo, non dà tempo, non quello:
“Enter the Ghost, exit the Ghost, re-enter the Ghost” (Amleto).»
(J. Derrida, Spettri di Marx,
Milano 1994)
A proposito del senso del momento spettrale, Amleto
comincia con una citazione della tragedia precedente, ed è del colto
Orazio, che già si guadagna i galloni di futuro aedo della storia:
«Nel più alto e felice Stato di Roma, un poco prima che cadesse il
potente Giulio, le tombe restarono vacanti, e i morti nei loro sudari
stridettero e squittirono nelle vie di Roma: e proprio un simile
precorrimento di fieri eventi, come araldi che sempre precedono i fati
e come prologo alla sventura che s’avanza, hanno cielo e terra insieme
dimostrato ai nostri climi e ai nostri compatrioti, come stelle con
code di fuoco e rugiade di sangue, maligni aspetti nel sole; e l’umida
stella, sull’influenza della quale si fonda l’impero di Nettuno, patì
quasi il finimondo per un’eclissi». Ergo anche la «cosa» che si è
manifestata alle guardie sugli spalti di Elsinore «presagisce qualche
singolare commovimento al nostro stato » (Atto I, sc. 1).
E nel Giulio Cesare si
parla ugualmente di »tutti questi striscianti spettri» (Atto I, sc.
3) che annunciano qualcosa di tremendo che sarà la morte di
Cesare, e Cesare stesso diverrà uno spirito «
vagante in cerca di vendetta, con al suo fianco Ate uscita infuocata
dall’inferno» (At. III, sc. 1). Lo vedrà il protoamletico Bruto
e gli chiederà: «Sei tu qualcosa? (…) Dimmi che cosa sei» (Atto IV,
sc. 3). Che è la cosa che chiederemmo tutti, e che in Shakespeare
tutti chiedono (per esempio Banquo alle streghe: «Vivete, o siete
qualche cosa a cui si possa rivolgere una domanda?» (Macbeth,
Atto I, sc. 1).
Nel Giulio Cesare i
fantasmi accorrono a sciami attorno al desiderio di un’azione
rischiosa e criminale. In Amleto invece il fantasma
viene a pretendere lui stesso un’azione – un crimine – che altrimenti
mai avrebbe attori. Interessante che in ogni caso il rapporto tra
fantasmi e azione sia così evidente. In Macbeth saranno
le streghe a istigare i covanti delitti, e Macbeth stesso ne invocherà
la forza («Venite, spiriti arbitri dei pensieri di morte:
dissuadetemi; e dai piedi alla fronte riempitemi fino al trabocco,
della più sorda crudeltà»,
Atto I, sc. 5).
Macbeth però vuol dire anche Banquo
che, come Cesare a Bruto, appare a mostrare come saprà attendere il
passato che non passa se non nell’illusione dell’omicida. Lo stesso
accade a Riccardo III, che come Hitler urlava di notte, e che allo
svanire di tutte le sue vittime dice cose sulla coscienza che avevamo
già sentito da uno dei sicari
di Clarence: «O coscienza
codarda, come mi affliggi! I lumi ardono di fiamma sulla mia carne
tremante. Che cosa temo? Me stesso? Nessun altro è qui; Riccardo ama
Riccardo; io sono ben io. C’è qui un assassino? No. Sì, son io. Allora
fuggiamo. Come, da me stesso? Buona ragione: perché? Perché io non
faccia vendetta. Che? Di me sopra me stesso? Ma io amo me stesso…»
(Riccardo III, Atto V, sc. 3).
Strepitosa la risposta di Macbeth
allo spettro di Banquo, che sanguinoso e irridente gli rovina la cena:
« Se i carnai e le tombe devono rimandarci indietro quelli che noi
seppelliamo, d’ora innanzi i nostri sepolcri saranno gli stomaci degli
avvoltoi» (Atto III, sc. 4).