"Il Compagno segreto" - Lunario letterario.Numero 12, settembre 2007 

 


 

n. 12 °*° W. Shakespeare : Fantasmi di Amleto  °*° n. 12

 

 

14.  Rimorsi e presagi

 

 


«C’è stato un tempo in cui, quando il cervello

Usciva dal cranio, l’uomo moriva

E tutto era finito…»

(Macbeth, Atto III, sc. 4)

  

«Addormentato? Non importa; godi la melliflua e pesante rugiada del sonno: tu non hai né gl’immaginari spettri, né le fantasie che le affaccendate cure infiltrano nella mente degli uomini…»

(Giulio Cesare, Atto II, sc. 1)

 

 «Se a qualcuno dovesse apparire strano che noi non evochiamo, come gli antichi, un deus ex machina, ma uno spirito dalla tomba, costui consideri quel si che scrive di continuo intorno agli spiriti.»

(Gryphius, Prefazione a Cardenio und Celinde)

 

 

 

«Momento spettrale, un momento che non appartiene più al tempo, se con questo nome si intende la connessione dei presenti modalizzati (presente passato, presente attuale: “adesso”, presente futuro). Noi domandiamo in questo istante, ci interroghiamo su questo istante che non è docile al tempo, almeno a ciò che chiamiamo così. Furtiva e intempestiva, l’apparizione dello spettro non appartiene a quel tempo, non dà tempo, non quello: “Enter the Ghost, exit the Ghost, re-enter the Ghost” (Amleto).»

 (J. Derrida, Spettri di Marx, Milano 1994)

 

 

 

A proposito del senso del momento spettrale, Amleto comincia con una citazione della tragedia precedente, ed è del colto Orazio, che già si guadagna i galloni di futuro aedo della storia: «Nel più alto e felice Stato di Roma, un poco prima che cadesse il potente Giulio, le tombe restarono vacanti, e i morti nei loro sudari stridettero e squittirono nelle vie di Roma: e proprio un simile precorrimento di fieri eventi, come araldi che sempre precedono i fati e come prologo alla sventura che s’avanza, hanno cielo e terra insieme dimostrato ai nostri climi e ai nostri compatrioti, come stelle con code di fuoco e rugiade di sangue, maligni aspetti nel sole; e l’umida stella, sull’influenza della quale si fonda l’impero di Nettuno, patì quasi il finimondo per un’eclissi». Ergo  anche la «cosa» che si è manifestata alle guardie sugli spalti di Elsinore «presagisce qualche singolare commovimento al nostro stato » (Atto I, sc. 1).

 

E nel Giulio Cesare si parla ugualmente di »tutti questi striscianti spettri» (Atto I, sc. 3) che annunciano qualcosa di tremendo che sarà la morte di Cesare, e Cesare stesso diverrà uno spirito « vagante in cerca di vendetta, con al suo fianco Ate uscita infuocata dall’inferno» (At. III, sc. 1). Lo vedrà il protoamletico Bruto e gli chiederà: «Sei tu qualcosa? (…) Dimmi che cosa sei» (Atto IV, sc. 3). Che è la cosa che chiederemmo tutti, e che in Shakespeare tutti chiedono (per esempio Banquo alle streghe: «Vivete, o siete qualche cosa a cui si possa rivolgere una domanda?» (Macbeth, Atto I, sc. 1).

 

 

 

Nel Giulio Cesare i fantasmi accorrono a sciami attorno al desiderio di un’azione rischiosa e criminale. In Amleto invece il fantasma viene a pretendere lui stesso un’azione – un crimine – che altrimenti mai avrebbe attori. Interessante che in ogni caso il rapporto tra fantasmi e azione sia così evidente. In Macbeth saranno le streghe a istigare i covanti delitti, e Macbeth stesso ne invocherà la forza («Venite, spiriti arbitri dei pensieri di morte: dissuadetemi; e dai piedi alla fronte riempitemi fino al trabocco, della più sorda crudeltà»,

Atto I, sc. 5).

 

Macbeth però vuol dire anche Banquo che, come Cesare a Bruto, appare a mostrare come saprà attendere il passato che non passa se non nell’illusione dell’omicida. Lo stesso accade a Riccardo III, che come Hitler urlava di notte, e che allo svanire di tutte le sue vittime dice cose sulla coscienza che avevamo già sentito da uno dei sicari di Clarence: «O coscienza codarda, come mi affliggi! I lumi ardono di fiamma sulla mia carne tremante. Che cosa temo? Me stesso? Nessun altro è qui; Riccardo ama Riccardo; io sono ben io. C’è qui un assassino? No. Sì, son io. Allora fuggiamo. Come, da me stesso? Buona ragione: perché? Perché io non faccia vendetta. Che? Di me sopra me stesso? Ma io amo me stesso…» (Riccardo III, Atto V, sc. 3).

 

 

 

Strepitosa la risposta di Macbeth allo spettro di Banquo, che sanguinoso e irridente gli rovina la cena: « Se i carnai e le tombe devono rimandarci indietro quelli che noi seppelliamo, d’ora innanzi i nostri sepolcri saranno gli stomaci degli avvoltoi» (Atto III, sc. 4).


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