"Il Compagno segreto" - Lunario letterario. Numero 8, luglio 2004

 

          Due poesie di Afanasij Afanasievich Fet sulla moglie dell'autore di Guerra e pace

 

 

  Tradisci o traduci? 

 

      di Fiornando Gabbrielli


 

Good is not good, unlesse

A thousand it possesse,

But doth wast with greedinesse.

John Donne, Confined Love

 

La stessa cosa avvenne a fine anni 70, del passato millennio: i supersofisticati costruttori di giradischi analogici sbraitavano peste e corna del neonato CD (per far girare il quale abbisognò, almeno a me, chiedere aiuto a una finanziaria). Fatto sta che un disco di 12 centimetri è inoppugnabilmente sei volte più piccolo d’uno di 30; in più il laser non soffrega, non palpeggia come lo stilo il delicato solco; rumori di fondo e fruscii vanno a farsi benedire; talché riluttanze e traferri parvero d’un tratto concetti e ordegni medievali, e das Kantatenwerk del sommo Cantore non pretese più un’ala del palazzo, né possenti tavole di obèche: s’accontentò di starsene in un cofanetto, in compagnia dei coequali, tascabili libretti della BUR: non più con gli atletici atlanti, le matronali enciclopedie, le stangone dell’Arte dispensate dai Fratelli Fabbri.


Parrebbe ora – parrebbe – arrivato il tempo dei libri digitali, di fare le scarpe agli analogici. Vero è che, come osservava Enzo Siciliano, il libro di carta ha molte delle qualità della donna, che quello elettronico nemmeno si sogna: puoi incignarlo ancora intonso, toccarlo, odorarlo, portarlo a letto con te, addormentarti col suo dolce peso sul petto: solo un pervertito potrebbe fare le stesse cose con un piccì, per portatile che sia. Ma non di meno è vero che al libro di carta, come alla donna, sono dovute attenzioni, delicatezze, obblighi (per esempio mai prestarlo, tanto più agli amici) che verso quello elettronico non ti passano manco p’a capa, perché a questo gli puoi fare quello che vuoi: formattarlo come più ti piace, sostituirlo con una versione più aggiornata, cambiargli i connotati – tutte cose impossibili col cartaceo, e, parbleu, disdicevoli con la propria donna. Un insigne traduttore, un luminare della letteratura inglese, mi confidava appunto di non essere più soddisfatto delle versioni (da Shakespeare) che aveva pubblicato vent’anni prima, per cui aveva chiesto all’editore di ristamparne un’edizione aggiornata; macché, l’editore non ha mica accettato. A un luminare. Il paragone con la donna non sembri perciò peregrino: il libro di carta è per sempre, finché morte non vi separi; il virtuale no. E’ diventato, forse, (ma certo che sì), con gli anni, col tempo devastatore, il tuo fiorellino amoroso una bolsa slandrona? Una minace, baffuta, popeyesca matrona? Spippola un po’ sulla tastiera, seleziona qua e là, cerca e sostituisci, taglia e incolla, ed ecco fatto il miracolo: il tuo fiorellino amoroso, di nuovo, più bello e più dolce che pria.

 


Pensieri del genere mi sono venuti in mente non per caso, o per freddo ragionamento (il che sarebbe pure plausibile), ma per esperienza diretta: ci ho sbattuto cioè personalmente la testa più volte, da quando ho cominciato a tradurre. Fino allora avevo accettato, preso per buono, quello che stava scritto nel libro comprato in libreria. Ohé, mica Pippo Poppi Editore: Einaudi, Adelphi, Studio Editoriale, Guanda, e compagnia bella. Quando non ci capivo granché, chiudevo il libro e lo riponevo fra gli altri, un po’ avvilito di risultare, mannaggia, proprio io – uno per cui tanti eccellenti istitutori si sgolarono per anni dalle cattedre d’uno fra gli ottimi licei d’Italia – proprio io persona incolta, inadeguata, irrimediabilmente negata alla bellezza, agli straordinari concetti che evidentemente (se l’avevano pubblicato) l’autore aveva espressi in quel libro, e alla comprensione dei quali altrettanto evidentemente soltanto io (se altri lo citavano entusiasti, recensori lo recensivano, Sgarbi ne leggeva brani in tv) non ero capace d’arrivare. Poi però, cocciuto, quasi indispettito, (e soprattutto, rimasto senza lavoro, ricchissimo di tempo da perdere), ho cacciato il naso direttamente nei testi originali – con la pazienza e la fatica che si possono accreditare a un autodidatta di quelle lingue – ed ecco che un’altra verità cominciava a tralucere, un’altra ipotesi, almeno, a prendere corpo: che forse non io, ma il traduttore fosse la persona incolta, inadeguata alla bellezza del testo – e il suo editore con lui. 


 

Ma era possibile questo? Possibile che case editrici famose per lignaggio e reputazione gabellassero pacciame per oro,  parole in libertà per fulgidi pensieri? Possibile che per ragioni commerciali (avendo in magazzino ancora migliaia d’esemplari di queste loro sciagurate edizioni, o spendendo un nulla per ristamparne ancora) seguitassero, e tuttora seguitino (perciò attenzione gente), a promuovere quelle andantissime traduzioni e a rifiutarne di nuove, non dico esaustive dei testi originali (cosa che, sia pur di rado, avviene: il Brantome di Savinio sia d’esempio, e monito, a tutti i traduttori) ma almeno condotte con devozione: dizionario, grammatica e sintassi alla mano, e tirandosi dietro, il traduttore, un filo logico-interpretativo plausibile, che non obblighi il lettore a un frustrante abbandono?

 

Perché cos’altro può fare un disgraziato di fronte a un periodo come questo, tratto dal discorso che Calibano pronuncia nel terzo capitolo del Mare e lo Specchio di Auden, nell’unica versione disponibile in italiano?

 

La nostra Musa innata, sa e ne sia lodato il cielo, non è esclusiva. (...) le sue famose, memorabili e ricercatissime serate presentano all’occhio speculativo una splendente e mai offuscata prova del suo potere sbalorditivo e senza precedenti di creare combinazioni e contrasti in modo che ogni sfumatura della tavolozza morale e sociale contribuisca alla generale ricchezza, della destrezza, inavvicinata e intentata dalla zia greca e dalla sorella gaelica, con cui essa può pattinare in piena inclinazione verso la spietata incoerenza e infine, all’ultimo secondo spaccato, sull’orlo fremente del boemo non standardizzato abisso effettuare la sua sbalorditiva trionfante curva.” (Il Mare e lo Specchio, Milano 1988, pagg. 57-59)

 

Che cos’altro puoi fare, dico a te, lettore, se non riflettere su ciò che hai appena letto, cercando anzitutto di figurarti come possa essere fatto un abisso boemo (standardizzato o no vedremo dopo, come pure l’orlo fremente: orli frementi standardizzati, del resto, li fa anche mia moglie con la macchina da cucire giapponese, selezionando il punto a zigo zago – sicché un’idea ce l’ho, ma d’abissi boemi, giuro, non ne avevo mai sentito parlare prima; sapevo sì di certe grotte carsiche, da quelle parti. Ma chissà, forse c’è là davvero un famoso abisso, non standardizzato, e a tutti noto fuorché a me, ignorante e bestia che non sono altro). E cosa ti resta ancora, dopo che hai riflettuto a vuoto qualche minuto, se non chiudere il libro e riporlo una volta per tutte sullo scaffale? E dire che in calce al volume è riportata una lettera di Auden alla traduttrice, in cui il poeta domanda se ‘c’è uno scrittore italiano che abbia uno stile altamente ricercato su cui basare la traduzione’ (come aveva fatto lui ispirandosi allo stile di Henry James per Calibano). La traduttrice risponde che ha intenzione d’ispirarsi a Gadda... Sì, der pasticciaccio.

 


E questo è solo un passo, tradotto oltretutto fedelmente, se esista una fedeltà oscura; ma ce ne sono altri in cui il testo, drammatico eppure chiarissimo, è stravolto, con esiti addirittura comici, come quando il timido va a vincere alla fiera, win the fair, anziché conquistare la bella (p.65), o la Fortuna gioca a scacchi nei più malfamati bar di Caracas, o urla staffilata su letti di ferro (non è detto da chi: certo da qualcuno che non ha fatto bingo) (pag.71). Tutto ciò sia detto senza cattiveria: non si fa una risata quando uno scivola su una buccia di banana? Succederà certamente anche a noi, e di noi rideranno gli altri. Ma possibile che, finora, quattro volte mi sono accinto a verifiche del genere e quattro volte è sortito lo stesso risultato? Cioè che la versione pubblicata fa acqua da tutte le parti? O non sarà piuttosto che sono io a vedere la pagliuzza eccetera? A volte questo dubbio rode, fino a quasi diventare certezza. Ma poi mi guardo intorno e vedo che non sono solo. Provi chiunque a leggere la Filocalia nella lussuosa edizione Gribaudi, Torino 1982, e quella di fra’ Giovanni Vannucci, affidata alle smilze brochures della LEF, Firenze 1978, e mi sappia dire se non c’è la stessa differenza che fra notte e giorno, fra tormentoso cicaleccio e cuore che parla al cuore. 


Lo stesso accade coi grandi romanzi dell’800: a seconda del traduttore li bevi d’un fiato o t’addormenti dopo tre pagine, quasi li avesse scritti Eco, o Alberoni. Lo stesso sarà accaduto a quei lettori che, su questo stesso sito, hanno giudicato fredda e oscura la poesia di Brodskij.

Anch’io a una prima lettura ebbi la medesima impressione, per cui il caro Josif  ha ronfato tutti questi anni fra due guanciali: Bogdanov e Bulgakov. Ma rileggiamolo ora, dopo che non io in quanto me, ma quel palloso di Fiornando Gabbrielli ha messo mano al testo originale, e n’ha tirato fuori un senso, un andamento d’idee e di sensazioni, un po’ di quel fuoco insomma che illumina e riscalda tanta prosa dello scrittore russo. Non tenti però oggi, checché! né il Fiornando Gabbrielli né nessun altro traduttore, fosse pure un novello Montale, un Leopardi mascherato, un Dante in incognito, di riproporre a Adelphi la poesia di Brodskij: l’abbiamo già in catalogo, vende bene così, non vediamo perché dovremmo cambiarla.

Ecco dunque perché sarebbe l’ora – sarebbe – che il libro cartaceo passi la mano all’elettronico, e vada in pensione, come hanno fatto via via le pergamene i rotoli i papiri le tavole.

Grandi interessi vi s’oppongono, si sa, come sempre a ogni mutamento – autori, editori e loro società; poligrafici, librerie, edicole; e, last but not least, il mio amico Fabrizio, titolare d’una bancarella di libri usati  – ma son tutti interessi oramai contrari a quello del lettore, che ha il diritto, penso, di scegliersi, d’un’opera, la versione che più gli piace, come d’un’automobile – e non, come ora, per ragioni che nulla hanno a vedere con la cultura, o mangiar questa minestra o saltar quella finestra.  

 

Un bene non è un bene se a migliaia

Non possono goderne la bontà,

Ma va sprecato per avidità.

(John Donne, Amor recluso)

 


 

*°*

 

Per le traduzioni di Fiornando Gabbrielli, vai  al sito www.e-book4free.com

 

Altre poesie le trovi alla pagina di tradire&tradurre del numero dedicato a J. Brodskij


 

 

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