“Narrano
che egli ammaliasse col suono dei canti le dure rocce dei monti e
le correnti dei fiumi”:
così, del magnetico Orfeo nelle “Argonautiche” di
Apollonio Rodio.
La
forza della musica: con essa aveva piegato le ombre infernali che
gli avevano sottratto l'amata Euridice. Cos'è, infatti, la musica
se non l'unico strumento capace di annullare ogni strepito per guadagnare
il silenzio che abita dentro l'anima?
Orfeo
conosceva bene la notte, come il giorno, riuniva in sé Dioniso e Apollo,
il furore e il cielo: la grande contraddizione, il paradosso. Non
vi era polarità di opposti (come credeva Nietzsche), era trasfusione
di opposti. E in questa tensione morì straziato.
Partecipò
alla spedizione per la conquista del vello d'oro, perché nessun mortale
poteva conoscere meglio di lui le rotte, lui che aveva conosciuto
la via che arrivava agli Inferi e quella del ritorno ai vivi. Rappresentò
il compagno segreto di ciascun marinaio, cantando, incitandoli, mostrando
loro l'origine più remota delle cose e i loro segreti: così al suono
della lira d'Orfeo gli eroi battevano coi loro remi l'acqua impetuosa
del mare, e s'infrangevano i flutti.
Orfeo
rimane solo, pur partecipando al mondo. In una storia di mare rappresenta
ogni navigante con se stesso e il suo desiderio, una strana malinconia
compiuta e conchiusa, come di chi sa già. Come una nave ai marinai,
il tempio dei misteri orfici è accessibile solo agli uomini, come
un viaggio senza orizzonti di terra, per soli iniziati.
Raccontano
che, dopo la perdita di Euridice, Orfeo non volesse più donne accanto
a sé: queste si vendicarono, lo uccisero, gettarono il suo corpo smembrato
in mare. Una nuova iniziazione. "Un segnale di salvezza davanti
agli occhi...". Ma la sua testa
navigò sui flutti verso terra. Procedeva come un cappello sul pelo
dell'acqua. E continuava a cantare.