Per
contrappasso, ad un tale padre così “sano”, vitale ed attivo,
dovette toccare in sorte un figlio come Franz, “così taciturno,
cupo, scialbo, debilitato” da riuscire insopportabile a se stesso.
Un figlio schiacciato subito, immediatamente, dal vigore paterno,
schiacciato da quell’ansia, da quel senso di inutilità, che
suscitano gli ordini e le direttive delle “persone pratiche”,
quelle che guardano alla “sostanza”, all’“utile”.
Giustificata
fu la tua avversione per le cose che scrivevo. (…). Qui ero
riuscito realmente a ritagliarmi uno spazio indipendente da te,
anche se ricordavo il verme che schiacciato da un piede nella parte
posteriore, riesce a liberare la parte inferiore e striscia via di
lato. Mi sentivo in qualche modo al sicuro, riuscivo a riprendere
fiato…
Kafka
avrebbe voluto intitolare tutta la sua opera “Tentativi di
evasione dalla sfera paterna”; il
primo racconto che gli diede la sensazione di quanto inebriante
potesse essere scrivere è “Il verdetto”,
in cui un padre condanna a morte il figlio: quasi omicida è del
resto il padre di Gregor Samsa…
Siamo
agli antipodi del padre, uomo dai chiari “obiettivi”. Nella sua
profonda diversità, o forse mancata complementarietà, il figlio
aveva osservato e rimuginato l’effimero che vi è in ogni azione,
in ogni “scopo”, posto arbitrariamente come punto di arrivo,
nella violenza del tempo, dalla volontà umana.
Scrive
E. M. Cioran: “Essere, vuol dire essere incastrati”. – Franz
“K.” intuì, credo profondamente, tale situazione, ma in scacco
a qualsiasi Forza riuscì anche a gioire nell’incastro.