"Il Compagno segreto" - Lunario letterario. Numero 4, aprile 2003


 


 

 

Don Giovanni di Lorenzo Da Ponte e W. A. Mozart

 

 

 

1. Come si scrive un libretto?

 

Che cosa complicata! – Goldoni per esempio all’inizio sbagliò tutto. Aveva 25 anni, e già una buona esperienza di autore teatrale. Nelle Memorie racconta che, sicuro di aver composto un capolavoro che non avrebbe dovuto che essere adattato per essere un libretto perfetto, andò – era a Milano – da un suo amico potente, direttore dei balletti, perché lo esaminasse. Il testo fu esaminato assieme a un gruppo di cantanti di grido, tra cui spiccava il celebre castrato Caffariello: non ci fu uno che salvò la fatica del giovanotto da una bocciatura senza appello.

Accompagnato il giovane sfiduciato in un’altra stanza, Goldoni si sentì dire:

 

“Ascoltate, vi indicherò qualcuna di queste regole, che sono immutabili e che voi non conoscete. I tre personaggi principali di un Dramma devono cantare cinque arie a testa: due nel primo atto, due nel secondo, e una nel terzo. La seconda attrice e il secondo alto possono averne solo tre, e gli ultimi ruoli devono accontentarsi di una, o al massimo due. L’autore delle parole deve fornire al musicista le differenti sfumature che formano il chiaroscuro della musica, e stare attento che due arie patetiche non vengano uno dopo l’altra; bisogna alternare, con la stessa precauzione, le arie di bravura, le arie d’azione, le arie di mezzi caratteri, i minuetti e i rondò.” (Goldoni, Memorie, pp.148-51).

 

Tornato a casa, Goldoni prese il manoscritto e lo gettò nel fuoco.

Morale: solo chi fa parte di un ambiente teatrale, coi cantanti e il compositore, può scrivere un buon libretto d’opera. Il librettista è uno scrittore obbediente. Anche un Racine e un Alfieri, del resto, lo erano nelle loro tragedie; diversi sono solo gli “Aristoteli”: non le fatidiche unità di tempo, luogo e azione, ma le esigenze del compositore e “anche del primo buffo, la prima donna, e più di qualche volta il secondo, terzo e quarto cantante della compagnia”! (L. Da Ponte, An Extrat, 1819).

Lo scrittore obbediente, il risolutore di situazioni impossibili, si faceva eroico nella scrittura dei finali d’atto, garbuglio rispetto al quale le regole aristoteliche erano giochetti per infanti:

 

“In questo finale devono per teatrale domma comparire in scena tutti i cantanti, se fosser trecento (…) e se l’intreccio del dramma nol permette, bisogna che il poeta trovi la strada di farselo permettere, a dispetto del criterio, della ragione e di tutti gli Aristoteli della terra.” (Memorie).

 

E, una volta finito, il testo non è qualcosa che possa illudersi di riposare nell’Eden della raggiunta definitezza: quel testo non esisterà mai: esisteranno solo libretti da adattare costantemente: alla compagnia e al pubblico, ai cantanti che cambiano e a qualunque altro accidente: vedi anche le differenze tra il Don Giovanni di Praga e quello di Vienna…

 


 

 

torna a  

torna su