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settembre 1917. Kafka scrive nel diario: “Temporanea soddisfazione
mi possono dare ancora lavori come Il medico di campagna,
presupposto che una cosa simile possa ancora riuscire (molto
improbabile). Ma felicità solo nel caso in cui io possa sollevare il
mondo nel puro, nel vero, nell’immutabile.”
La
parola “immutabile” (come “indistruttibile”) è una delle
parole-koan dei diari di Kafka. Calasso, in “K”, ci avverte
che c’è un passo biffato – uno solo – in cui “immutabile”
sostituisce “divino”… - Se non divino, almeno profetico fu per Kafka proprio il
racconto del Medico, per quell’apparire e sparire della
ferita sul corpo del povero malato. Il racconto fu scritto nella
casetta della Alchimistengasse nell’inverno del 1916-17. Pochi mesi
dopo, Kafka ebbe il primo sbocco di sangue.
La
stessa medicina contemplava il caso di una malattia che, prima
inconsciamente desiderata e covata, giunge infine a manifestarsi.
Kafka parlò spesso della ferita del Medico come di una
“ferita profetica”
Sulla
tubercolosi, famosa la parabola con cui la raccontò, nel 1920, a
Milena
“Ecco,
il cervello non riusciva più a tollerare le preoccupazioni e i dolori
che gli erano imposti. Diceva: ‘Non ne posso più; ma se c’è
ancora qualcuno cui importi di conservare il totale, mi tolga un po’
del mio peso, e si potrà campare ancora un tantino’. Allora si
fecero avanti i polmoni, che, tanto, non avevano molto da perdere.
Queste trattative fra il cervello e i polmoni, che si svolgevano a mia
insaputa, devono essere state spaventevoli.”
La
cerimoniosa educazione del cervello, quel chiamare la vita appena come
il “totale”, e il “campare ancora un tantino”, e il “non
avevano molto da perdere”…