Compresi
quelli che acchiappano, alla Matrix, tutto al volo? Certo che no: Valéry
va masticato e digerito in solitudine, versi e prose. Lui l’aveva
voluto, previsto in anticipo: “Preferisco essere letto molte
volte da uno solo che da molti una sola volta.” Solo il Cimitero
Marino, forse, fa eccezione alla regola – e Valéry stesso ne
attribuisce la causa alla “speciale simpatia che c’è fra forma
e memoria”: al puro suono, insomma, alla musica del verso, senza
ulteriori valenze - tant’è che nei Quaderni è riportato
l’episodio d’un bracciante agricolo (nero) della Luisiana che sa a
memoria tutto il poema. “Molti lo sanno. Lo sa Giacobbi, il
neoministro delle colonie. E tanti altri. Lo sanno tutti fuorché
io!” commenta divertito il poeta.
Ma se la
difficoltà del lettore è presto superata - basta una sedia, un
angolo tranquillo, e un po’ di buona volontà – non così semplice
si presenta il compito del traduttore: tocca
anzitutto imparare, e cercar d’applicare – anche se non lo
si condivide - il metodo, il sistema di procedere dell’autore:
ricostruire cioè, come lui, il testo a priori, con tutte le
regole, le restrizioni che s’era imposto lui; rifare i calcoli
strutturali da lui risolti, e scovare (questo è il punto cruciale)
parole-radici equivalenti alle sue, ma che soddisfino altre equazioni,
di pari grado ma con altre variabili, che una lingua diversa
necessariamente comporta. Il compromesso, allora, è di prammatica,
perché Valéry sa così bene incastrare ogni tessera, da lui ritenuta
essenziale, nel mosaico della strofa, e poi tirare il tutto così a
lucido, che se tralasci (o
peggio, aggiungi) anche solo una virgola il tradimento è perpetrato,
patente. Un esempio: nella poesia della Cvetaeva che apriva la
scorsa pagina matta ci sono, fra le altre cose, due aggettivi, ljùtyj
e berlòzh’ih, che non ho tradotto per necessità di metro:
il primo, crudele, è riferito al coltello, e il secondo, rintanate,
alle fiere dei boschi. Sono aggettivi pleonastici, che nulla tolgono o
aggiungono alla capacità d’emozione, e di commozione, del testo:
stanno lì per ragioni di metro: il coltello d’un brigante non
potendo che essere crudele, le belve dei boschi che avervi la tana. In
Valéry invece ogni minima parolina va spulciata e soppesata: sui due
avverbi di luogo y (strofe IX e X) c’è da penare forse più
che su tutti gli altri termini della strofa. Fosse stato un altro poeta, che male
ci sarebbe a tradurre (strofa XV):
Ils ont fondu dans une absence épaisse
L’argile
rouge a bu la blanche espèce,
Le
don de vivre a passé dans les fleurs!
con:
Fusi
in impercettibile spessore
La
rossa argilla bevve il lor pallore
Nei
fiori passò il dono dei viventi!
Qualche
trucchetto e alé: il verso, e la rima, la rima che dà sacralità al
verso, sono assicurati. Poi però ci ripensi: fondre, in questo
caso, è sciogliersi, dissolversi: fonde il ferro, il cioccolato, non
la neve, o il cadavere. Espèce, che Tutino traduce
‘essenza’ (perfetta rima di ‘assenza’), è, all’opposto, il
latino species, aspetto. Le don de vivre non è né ‘il dono
dei viventi’ né ‘il dono della vita’: è ‘il dono di
vivere’, très simplement. Che sacralità può mai esserci in una
rima tirata, se non con le pinze, con le unghie? In un
endecasillabo-letto di Procuste, in cui lo scarno ma elegante, ben
pettinato verbo valeryano è scamozzato o stravolto in arcaismi
sintattici alla Annibal Caro? Dove va a finire l’eccitazione,
l’esaltazione per il lavoro svolto con meticolosa esattezza e
proprietà di termini - che è poi, a detta di Valéry, il vero scopo
della poesia? Cento altri passi, come questo, potremmo indagare e
discutere: quasi ogni verso, di questo poeta, suscita domande d’una
tale complessità concettuale e interpretativa (basta leggere i
commenti dei vari studiosi, anche di madrelingua, così diversi,
quando non proprio opposti fra loro) che è problematico perfino
renderlo in prosa, figuriamoci in poesia; per cui non resta che
arrendersi all’idea d’una sua sostanziale intraducibilità, come
più che fondata.
Impàrati
dunque, lettore attento e solitario, la lingua di Racine e Boileau, stùdiatela
a fondo: ci metterai sicuramente meno che a tirar su, una per una,
tutte le perle che il Nostro ha nascosto nei suoi scritti, e che
nessuna traduzione ti potrà mai regalare.
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