"Il Compagno segreto" - Lunario letterario. Numero 10, maggio 2005

Traducendo Valéry  

 di

Fiornando Gabbrielli


 

“Sono un poeta che non può sopportare ciò che attira e aggancia alla poesia gran parte di coloro che l’amano... Io sono un poeta al quale gran parte delle cose ritenute poetiche non fanno né caldo né freddo, e a volte lo annoiano...  Se si tenta di risalire dai miei poemi a un poeta ci si sbaglia.... Questo errore è molto grave nei miei confronti.”

 

Come si fa a trasportare in un’altra lingua le opere - non le chiameremo ‘poesie’, non abbia a arricciare il naso il buon Valéry, che già si sentirà a disagio nel girone dei poeti - d’un autore che la pensa così sulla Poesia? Perché in genere il traduttore (almeno nel mio caso) ha da rivolgersi, prima che all’opera, alla Musa che l’ha ispirata - come una volta usavano fare anche i bravi poeti - perché si degni di ripetere nella nuova lingua quello che cantò a suo tempo a uno di loro. Ma chi è la Musa di Valéry? Non certo Calliope, Melpomene, o Talìa. E nemmeno Eratò. Non avrei saputo a che santo rivolgermi, se Valéry stesso non ci avesse dato qualche dritta:

 

“La mia ambizione letteraria è stata la scrittura di precisione. Il contenuto, indifferente...  Scrivere per me assume sempre il senso di costruzione di un calcolo... Subordino (quanto più sono vicino al mio stato migliore) il contenuto alla forma – sacrificando sempre quello a questa.” 

 

Dunque è una musa che s’occupa di matematica, d’ingegneria, di meccanica di precisione: una musa svizzera, compos sui e fredda (“Fornire i propri sentimenti non spetta all’autore, spetta all’altro.”) assemblatrice di parole - le più comuni, le meno costose - per costruire oggetti mentali: oggetti qualsiasi – perché la cosa importante non è tanto l’oggetto in sé, quanto il piacere di costruirlo: l’eccitazione che dà il progetto, l’esecuzione, la finitura, il fai e disfai  – proprio come noi ragazzi col Meccano, e i nostri figli coi Lego. Comporre versi perfetti, su un qualsiasi argomento, considerando il risultato un mero accessorio, un accidente dell’attività compositiva: ecco la poetica di Valéry

 


Molte, le conseguenze d’una simile impostazione, sia per il lettore che per il traduttore. Intanto la thing of beauty non sta lì, papale papale. Va ricostruita parola per parola, verso per verso, ripercorsa, ripensata, ricreata e goduta in proprio, in solitudine, come intese il suo artefice (“Io riservo la mia autentica poesia per il mio uso personale... Scrivo per gli uomini che sono soli e che hanno la forza di sentirsi soli...”): d’un qualsiasi altro poeta è possibile dare pubbliche letture: il bravo dicitore terrà incatenata la platea declamando Mallarmé, Dante, Novalis, e magari Nanni Balestrini. Ma può il più fine interprete, il più scaltrito degli imbonitori, arrivare a leggere la seconda stanza della Giovane Parca senza che l’uditorio sia uscito nel frattempo a prendere una boccata d’aria?


Compresi quelli che acchiappano, alla Matrix, tutto al volo? Certo che no: Valéry va masticato e digerito in solitudine, versi e prose. Lui l’aveva voluto, previsto in anticipo: “Preferisco essere letto molte volte da uno solo che da molti una sola volta.” Solo il Cimitero Marino, forse, fa eccezione alla regola – e Valéry stesso ne attribuisce la causa alla “speciale simpatia che c’è fra forma e memoria”: al puro suono, insomma, alla musica del verso, senza ulteriori valenze - tant’è che nei Quaderni è riportato l’episodio d’un bracciante agricolo (nero) della Luisiana che sa a memoria tutto il poema. “Molti lo sanno. Lo sa Giacobbi, il neoministro delle colonie. E tanti altri. Lo sanno tutti fuorché io!” commenta divertito il poeta.

 

Ma se la difficoltà del lettore è presto superata - basta una sedia, un angolo tranquillo, e un po’ di buona volontà – non così semplice si presenta il compito del traduttore: tocca  anzitutto imparare, e cercar d’applicare – anche se non lo si condivide - il metodo, il sistema di procedere dell’autore: ricostruire cioè, come lui, il testo a priori, con tutte le regole, le restrizioni che s’era imposto lui; rifare i calcoli strutturali da lui risolti, e scovare (questo è il punto cruciale) parole-radici equivalenti alle sue, ma che soddisfino altre equazioni, di pari grado ma con altre variabili, che una lingua diversa necessariamente comporta. Il compromesso, allora, è di prammatica, perché Valéry sa così bene incastrare ogni tessera, da lui ritenuta essenziale, nel mosaico della strofa, e poi tirare il tutto così a lucido, che se tralasci  (o peggio, aggiungi) anche solo una virgola il tradimento è perpetrato, patente. Un esempio: nella poesia della Cvetaeva che apriva la scorsa pagina matta ci sono, fra le altre cose, due aggettivi, ljùtyj e berlòzh’ih, che non ho tradotto per necessità di metro: il primo, crudele, è riferito al coltello, e il secondo, rintanate, alle fiere dei boschi. Sono aggettivi pleonastici, che nulla tolgono o aggiungono alla capacità d’emozione, e di commozione, del testo: stanno lì per ragioni di metro: il coltello d’un brigante non potendo che essere crudele, le belve dei boschi che avervi la tana. In Valéry invece ogni minima parolina va spulciata e soppesata: sui due avverbi di luogo y (strofe IX e X) c’è da penare forse più che su tutti gli altri termini della strofa. Fosse stato un altro poeta, che male ci sarebbe a tradurre (strofa XV):

 

Ils ont fondu dans une absence épaisse

L’argile rouge a bu la blanche espèce,

Le don de vivre a passé dans les fleurs!

con:

Fusi in impercettibile spessore

La rossa argilla bevve il lor pallore

Nei fiori passò il dono dei viventi!


Qualche trucchetto e alé: il verso, e la rima, la rima che dà sacralità al verso, sono assicurati. Poi però ci ripensi: fondre, in questo caso, è sciogliersi, dissolversi: fonde il ferro, il cioccolato, non la neve, o il cadavere. Espèce, che Tutino traduce ‘essenza’ (perfetta rima di ‘assenza’), è, all’opposto, il latino species, aspetto. Le don de vivre non è né ‘il dono dei viventi’ né ‘il dono della vita’: è ‘il dono di vivere’, très simplement. Che sacralità può mai esserci in una rima tirata, se non con le pinze, con le unghie? In un endecasillabo-letto di Procuste, in cui lo scarno ma elegante, ben pettinato verbo valeryano è scamozzato o stravolto in arcaismi sintattici alla Annibal Caro? Dove va a finire l’eccitazione, l’esaltazione per il lavoro svolto con meticolosa esattezza e proprietà di termini - che è poi, a detta di Valéry, il vero scopo della poesia? Cento altri passi, come questo, potremmo indagare e discutere: quasi ogni verso, di questo poeta, suscita domande d’una tale complessità concettuale e interpretativa (basta leggere i commenti dei vari studiosi, anche di madrelingua, così diversi, quando non proprio opposti fra loro) che è problematico perfino renderlo in prosa, figuriamoci in poesia; per cui non resta che arrendersi all’idea d’una sua sostanziale intraducibilità, come più che fondata.

 

Impàrati dunque, lettore attento e solitario, la lingua di Racine e Boileau, stùdiatela a fondo: ci metterai sicuramente meno che a tirar su, una per una, tutte le perle che il Nostro ha nascosto nei suoi scritti, e che nessuna traduzione ti potrà mai regalare

 




 

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