"Il Compagno segreto" - Lunario letterario. Numeri 15, giugno 2011

 

Firenze infera, per demoni ulteriori

 

Sul cruciale X canto dell'Inferno di Dante

(per il compagno segreto, Maria Cristina Simeone)


1. E io: "Maestro, già le sue meschite / là entro certe ne la valle cerno,/ vermiglie come se di foco uscite/ fossero". Ed ei mi disse: "Il foco etterno / ch'entro le affoca / le dimostra rosse, / come tu vedi in questo basso inferno". Non viene ancora nominata, ma in qualche modo è riconosciuta sin da lontano dall'agens che non fa domande al Maestro: questi gli ha già detto, per annunciarne la comparsa, dei gravi cittadin che vi dimorano e tanto basta al pellegrino (caso raro) per ri-conoscerla nel descriverne le torri e nel darne una notazione che associa al colore rosso il fuoco. Anche la Città di Dite, come quasi ogni cosa nella Commedia, è invenzione dantesca. Qui preme coglierne taluni aspetti che invitano a considerarla 'figura' di Firenze, sensibile sotto 'l velame, entro la cerchia antica delle cui mura fu sepolto Guido Cavalcanti. Di questa città di morti il pellegrino descrive di lontano le rosseggianti torri, e il maestro Virgilio rinforza l'impressione: rosse rafforza vermiglie e foco è in anafora e in annominazione e su questa insistenza torneremo oltre.

Firenze nel 1300, anno in cui accadono i fatti di cui si parla, lavorava alacremente alla lenta costruzione -terminò solo nel '33- della nuova cerchia delle sue mura, commissionata a Arnolfo di Cambio fin dal 1282, e che, pur nella sua poderosa immensità, tracciava comunque confine a ovest della chiesa di Santa Reparata. L'occasione per il rinnovamento della cinta muraria precedente, posteriore al 1260, -opportuno per una città che contava ormai più di ottantamila abitanti ed era al centro di traffici vivaci e continui-  era stato dato dalla possibilità di riciclare l'abbondante materiale da costruzione che era venuto dalla cacciata degli Uberti e conseguente abbattimento delle case-torre della famiglia ghibellina. Quella cerchia sopravviveva nel 1300, ma la gente nova dai subiti guadagni voleva altro, nel segno di Dite, la cui radice è evidentemente avvertita dall'auctor in dis-ditis/dives-divitis (ricco), concorrente diretto di divus/deus (dio) e anche dies (dì-giorno), con ovvia ricaduta analogica su Lucifero, che volle essere Dio. Nel 1300 i lavori di costruzione dovevano essere in stato di avanzamento e i reperti informano circa dimensioni colossali: sei metri in altezza e otto chilometri e mezzo di lunghezza, la nuova cerchia recingeva l'area che ancora oggi è definita come centro cittadino, passando dai 75 ettari della cinta precedente a 430 ettari, con 63 meschite e 12 porte monumentali. Si sta quindi alla parte di 'figura' che concerne la lettera nel rilevare come l'ipotesi non sia peregrina. Ma la 'figura', si sa, è spessa e suo strato è anche la profondità storica. Qui si fa più arduo il compito. Emerge tuttavia quanto sia difficile per il pellegrino e la sua guida entrare e forse c'è qui una sovrapposizione sul tema del ritorno, una costante in bocca a Farinata nel canto X che s'annuncia, il primo oltre quelle mura maledette.


2. La folla dei demoni accusa l'agens di un andare folle (Sol si ritorni per la folle strada) e respinge il savio gentil, negandogli le dolenti case: la Ragione attende aiuto, impotente dinanzi alla tracotanza di Dite. Il pellegrino intanto, rimasto solo poco prima, mentre Virgilio colloquiava con i demoni guardiani, era rimasto in forse, "che sì e no nel capo" gli tenzonavano: esiliato da Firenze, dapprima Dante fu incerto se forzarne le possenti porte o risolutamente rinunciare a farvi ritorno, come infine scelse di fare. Nel caratterizzare la sua fantastica Firenze infera, l'auctor trasceglie nell'ampio spettro delle figure mitologiche le Erinni e Medusa. Tra l'evocazione di queste e la venuta del risolutore messo, la celebre terzina O voi ch'avete l'intelletti sani, /mirate la dottrina che s'asconde/ sotto 'l velame de li versi strani, appello all'intendere il sovrasenso morale non ai lettori del XXI secolo, che quello vedono meglio degli altri, ma ai contemporanei che leggevano chiaro ciò che a noi appare oscuro e Dante voleva apprendessero sin dai primi canti del vasto poema a intus-legere per l'anima loro e non a rammentare ciò che le chiacchiere e le croniche andavano narrando da anni, se diamo per buona l'ipotesi che i canti circolassero man mano che venivano composti (e cioè sin dal 1304). La simbologia delle Erinni è stata lungamente discussa e non sappiamo a quali altre fonti oltre alle solite classiche (Virgilio, Ovidio, Stazio) Dante abbia attinto, se vi fosse cioè una qualche tradizione allegorica medievale. Dai classici latini non emergono linee decisive per interpretazioni univoche, perché il solo tratto morale comune ai classici latini è la funzione loro assegnata di generiche tormentatrici. Così, anche, l'aspetto consueto con il crine a serpentelli non è traccia di novità, mentre interessante è ciò che le tre fanno: con l'unghie si fendea ciascuna il petto;/ battiensi palme e gridavan sì alto, invocando Medusa che possa pietrificare l'agens. L'atto di ferirsi il petto con le unghie e battere le palme s'è detto dai commentatori ricordare il gesto, consueto insieme allo strapparsi i capelli, compiuto dalle prefiche ai riti funebri -veglie e cortei- di secolare tradizione mediterranea e assai probabilmente ancora in uso in età dantesca. D'altra parte, per quanto pagano sia, la morte, anche per un devoto cristiano integerrimo quale Dante all'altezza della scrittura della Commedia, specialmente se di persone care, offre a chi resta vivo motivo di rimorso. Le Erinni rappresentano il rimorso nella mitologia greca, che Dante non conosce in diretta, ma forse conosceva da fonti a noi ignote; se anche non fosse così, l'idea che a guardia dell'infera Firenze-Dite stiano ambigue creature che, mentre aggrediscono, si autoinfliggono dolore è interessante, quasi che Dante, dall'alto dell'aver fatto parte per se stesso, pur nella nostalgia, riconosca la tragica doppiezza della crudeltà che nel fare il male ad altri lo infligge a sé.

 


3. Firenze che espelle i suoi figli migliori, e li tiene lontani tormentandoli, così si tormenta. E forse di quella Firenze che si rimorde fece parte anche lui, durante il tragico trimestre estivo del Priorato dell'anno 1300, quando con ogni probabilità -sebbene Leonardo Bruni testimoni di aver preso visione di un'epistola in cui Dante negava di aver contribuito alla decisione- egli sottoscrisse la condanna all'esilio dell'amico Guido Cavalcanti, e quando, tragicamente, non fece in tempo a -o piuttosto, ostinatamente ce lo figuriamo, non volle- sottoscrivere parimenti la revoca di quell'esilio stesso, che fu decretata solo quattro giorni dopo che era scaduto il termine dell'incarico a priore al 15 agosto. Restando in tema politico, a nessuno sfugge che tre sono le Erinni come tre sono le faville che hanno i cuori accesi di cui Ciacco ha riferito da poco all'agens, parlando apertamente di Firenze. Ma veniamo a Medusa, invocata dalle Furie perché faccia Dante divenir di smalto. Virgilio ammonisce il suo protetto che, secondo tradizione classica, non osi guardare quest'essere, chiamandolo al maschile 'l Gorgone. Quale che sia il valore simbolico di quest'essere che, a contrasto con la sottolineata natura femminea delle Erinni, non ha sesso, ciò che conta è che Virgilio sostenga che la sua azione può avere effetto sul suo protetto. E l'effetto è impedire per sempre a Dante il tornare sulla terra (nulla sarebbe di tornar mai suso), il che suona strana minaccia per uno che è stato obbligato da tre donne celesti a seguire Virgilio in questa singolare catabasi e che vuole oltrepassare la porta della città infernale, per andare avanti nell'oltremondo, non già per tornare indietro. Ma questa è la preoccupazione di Virgilio, il quale aiuta Dante a coprirsi gli occhi coprendoglieli a sua volta, non prima di averlo fatto girare su se stesso ("Volgiti  'n dietro" e poi ed elli stesso / mi volse). L'intera scena sembra dirci che l'immobilità (l'effetto di Gorgone) va scongiurata, perché impedisce come di andare avanti così anche di ripercorrere il passato biografico e storico che sono nel tempo, non extra-temporali: dopo la discesa agli inferi, e al termine del viaggio intero, Dante continuerà ad essere uomo vivo - e poeta narratore - del suo tempo, e lo deve. Per evitare l'effetto della pietrificazione, occorre allora voltarsi indietro, riconsiderare il passato, senza pretendere che sia chiaro in vista; anzi, la cecità è richiesta in qualche caso dalla ragione stessa. Mentre Dante e Virgilio stanno in questa posa, già venia su per le torbide onde /un fracasso d'un suon, pien di spavento, / per cui tremavano amendue le sponde. Così si annuncia, con il fragore di una tempesta scatenata in piena estate, l'arrivo del misterioso messo, prima creatura non mostruosa e non di tradizione classica che Dante genera dal suo cervello poetante commedia. Basta questo a tacitare i dubbi sulla sua natura? E' difficile anche solo immaginare che nella poesia di Dante compaiano il non necessario e il non pertinente, ché non sarebbe Dante. Di certo, tuttavia, è che non abbiamo sufficienti elementi per identificare un personaggio storico determinato, come in molti hanno proposto. L'ipotesi più accreditata rimane quella di una creatura angelica, per quanto infernale.

A me piace rammentare che davanti alle porte della nuova cinta muraria di Firenze sostava, per riscuotere i diritti di dogana, una serie di addetti fra i quali ce n'era uno speciale: il custode delle chiavi, che apriva e chiudeva le grandi ante in legno mattina e sera, salvaguardando la città di notte da ladri e malfattori. Dante agens è considerato tale dalla popolazione infernale che sta a guardia della Dite-Firenze, con tipico processo di rovesciamento della verità praticato e rappresentato in tutto Inferno. Non si spiegano con evidenza molte cose: dannati paragonati a rane non è hapax (ma in XXII ranocchi), si ritroveranno nella scoppiettante e divertente rappresentazione della bolgia dei barattieri -il titolo della condanna di Firenze a Dante- ma certo un angelo biscia, di cui, seppure per dire che restano asciutte, si nominano le piante, di cui si dice un gesto assai materiale come l'agitare la sinistra innanzi spesso e che, per questo gesto inteso a diradare il fumo della palude, parea lasso, insomma, questo messo è sì strano, soprattutto se paragonato a tutte le altre creature angeliche che compaiono nella Commedia connotate anzitutto da agilità, rapidità, facilità. Quest'ultima caratteristica è la sola che si preserva in questa greve figura, e sta nella verghetta (impossibile non ricordare quella in mano alla pasturella di Cavalcanti, poesia di grande risonanza già al tempo suo che può ben apparire blasfema in questa sede infernale) con cui apre la porta di Dite a Dante e Virgilio, ossia non nella sua persona, ma nello strumento che adopera. Infine, il messo (aggiungo che si dice da ciel messo, e l'assenza della preposizione articolata induce a pensare che qui Dante intenda un generico "dall'alto" piuttosto che "dal cielo") proununcia una tirata (parole sante, riassume Dante alla fine) contro i dannati, gente dispetta, che insiste in una stupida oltracotanza, perché Che giova ne le fata dar di cozzo? In questa dispettosa hybris che si converte in uno stupido esercizio di esibizione muscolare mentre la situazione richiederebbe altro atteggiamento, si ravvisano alcune delle costanti del popolo fiorentino - e italico - laddove Dante ne evoca le colpe e le miopie. Del messo l'agens nota che è pieno di disdegno e che di fronte a lui e Virgilio, sebbene li abbia aiutati, pare omo cui altra cura stringa e morda che quella di colui che li è davante: qui rammento che il disdegno non è identificabile tout-court con la sovrana disinvoltura (una sprezzatura) che sarà propria non solo delle altre creature angeliche della Commedia ma soprattutto di Beatrice e che la parola compare subito dopo nel Canto X in un luogo sensibilissimo di cui diremo e che inclina a renderla traducibile in disprezzo; che l'aggettivo disdegnoso - e ancora il nome - è nelle parole con cui Pier delle Vigne, nel suo linguaggio curiale, tenta di giustificare il proprio suicidio (L'animo mio, per disdegnoso gusto, / credendo col morir fuggir disdegno, / ingiusto fece me contra me giusto) e ancora conferma che sia assimilabile a disprezzo; che il paragone prima con una biscia e ora con un omo inclinano a ritenere che sia la sua funzione a dare dignità al messo e non già il contrario, che gli pesi esercitarla, per quanto semplice sia (appare lasso!), ma che essa gli conferisca l'autorevolezza di rimproverare i dannati-cittadini e farsi riverire da chi in Dite vuole entrare (Virgilio invita il discepolo a inchinarsi dinanzi al messo), senza riguardo per il chi sia, ma piuttosto per il fatto che lo vuole ed egli,  ab alto missus, lo permette. Egli pare, insomma, inaugurare letterariamente la serie dei burocrati guardiani o gabellieri, gerarchie intermedie il cui potere, sebbene solo riflesso, è capace di determinare destini.


4. All'ingresso oltre la porta, ecco presentarsi allo sguardo e all'orecchio di Dante lo spettacolo delle arche arroventate da cui escono duri lamenti, a detta dell'auctor, sospiri dolenti secondo l'agens che ne chiede conto a Virgilio, e secondo un'associazione immediata per chi è innamorato della poesia di Cavalcanti, alle tante ricorrenze di entrambi i termini seppure non in gancio diretto, nella poesia di Guido (ma si veda anche il sonetto irriverente che gli indirizzò Nuccio senese). Interessanti nella risposta di Virgilio sono due affermazioni, la prima delle quali si fa notare per la sua ovvietà e che quindi sorprende sia detta; la seconda che si fa notare per la ragione opposta. La prima sta nel descrivere Virgilio i peccatori che dimorano nelle arche col notare Simile con simile qui è sepolto. Necessaria precisazione? No davvero, nemmeno per Dante agens, ormai avvezzo dall'aver passeggiato tra le anime degli incontinenti a considerare che subiscono il medesimo contrappasso peccatori dello stesso peccato. La precisazione di Virgilio è quindi allusiva a qualcosa d'altro, che meglio si chiarirà. La seconda sta in un dettaglio rilevato da molta letteratura critica: l'auctor segnala che Virgilio guida Dante girando a man destra. Solo un'altra volta accade nell'inferno: nel canto XVII in cui l'apparizione di Gerione interrompe la serie dei violenti e porta all'incontro con una categoria che evidentemente a Dante premeva fosse rilevata: gli usurai. Poiché è impossibile persino per Dante trovare un tertium tra destra e sinistra nella necessità comunque di svoltare, non ritengo fondamentale il ricorso a memorie bibliche e nemmeno per questa volta sottolineare un qualche sovrasenso morale della scelta, ma piuttosto trovare nella concordanza destrorsa -unica- con l'ingresso in Malebolge, un ulteriore segnale che siamo a Firenze, terra di usurai che in quel torno di tempo già vantava una tradizione, se pensiamo che solo per il consolidamento di essa si spiega come i Medici qualche tempo dopo siano potuti diventare quello che divennero (e solo dopo i Pazzi, prestatori di denaro a Sisto IV).  E infatti, secondo l'uso medievale, il cimitero di Firenze stava nel 1300 e ancora dopo, collocato tra la cerchia antica delle mura e la chiesa di Santa Reparata, di cui, quando Dante immagina il suo viaggio, erano in pieno fervore i lavori che porteranno alla struttura dell'attuale duomo.

Di Farinata degli Uberti e, meno, di Cavalcante de' Cavalcanti s'è scritto tantissimo circa la loro condivisione -e con Dante- di due aspetti tragici in vita: l'esilio e la distruzione delle loro sostanze, e il cosiddetto "dramma della paternità". Poco ci importa: il fatto che qui siano insieme per noi significa altro. Che Farinata fosse "epicureo" (scilicet averroista, aristotelico radicale) -questo l'appellativo dato in vita già a Federico II, qui pure dannato seppur silente- e che a tale caratteristica teologico-morale si associasse la parte politica ghibellina nel XIII secolo è cosa nota. Assai meno noto, o addirittura strano, che il vecchio Cavalcanti, di famiglia guelfa, contemporaneo e concittadino di Farinata, ma esiliato dopo Montaperti, quindi nemico degli Uberti, sia pure lui un "epicureo". E' anzi probabile che proprio a scopo di annodare un'alleanza dapprima inesistente, fu combinato dai due notabili un matrimonio tra i rispettivi figlioli Bice e Guido. E' sicuro che le loro anime dannate condividono una sola arca (simile con simile?), ma che l'una ignora completamente l'altra. Vi sono altri casi nell'inferno in cui anime accomunate si ignorano o, piuttosto, si tormentano o si fanno dispetti a vicenda, ma per esempio Ulisse accoppiato a Diomede nella fiamma antica che ne avvolge il capo, ma che ignora il suo compagno di pena, è il solo dei due a parlare, così come Francesca unita a Paolo. Qui invece parlano entrambi i dannati, eppure, per così dire, non si sentono. S'è detto che il grande assente nella Commedia è proprio Guido Cavalcanti, maestro, amico, mentore del giovane e talentuosissimo Dante fino al tempo della conversione di quest'ultimo all'ortodossia, teologica, morale, intellettuale; quell'ortodossia, di cui è testimonianza a contrario la Vita Nuova, e che fa scrivere a Cavalcanti il bel sonetto I' vegno 'l giorno a te 'nfinite volte / e trovoti pensar troppo vilmente, dove vilmente è parola-chiave ripresa nel vil tua vita (di Dante) e dalla chiusa in terzina finale anima invilita. L'accezione di vile è doppia, significando sia una sorta di abbattimento psichico - che noi chiameremmo stato depressivo - sia "spregevole", vale a dire, per etimolgia e per tradizione letteraria quantitativamente immensa dai latini agli stilnovisti, Guinizzelli in testa, l'opposto di nobile. Ma torniamo al grande assente dalla Commedia. Dante riesce sempre a infilare nell'oltretomba viventi ancora nell'aprile 1300 e non fa mestieri ricordarne i casi. Inoltre, dei letterati, maestri o compagni a vario titolo del suo percorso intellettuale, compaiono i necessari, i più in purgatorio, i filosofi in limbo o in paradiso, Brunetto Latini e, perché no, Pier delle Vigne e Federico II all'inferno.


 

5. Che Cavalcanti sia stata personalità eccezionalmente forte per il giovane Dante (hanno forse dieci anni di differenza, non pochi in quei tempi) è chiaro in Vita Nuova e nel De Vulgari Eloquentia, dove viene citata più volte come esemplare la canzone dottrinale Donna me prega, su cui torneremo; ma non solo: talvolta la statura del poeta ci fa scordare che dal punto di vista sociale nella provinciale (per noi) città di Firenze, per un Durante Alighieri della piccola nobiltà fregiarsi dell'amicizia e della stima di un Cavalcanti, poeta e attivista politico sommo in Firenze e oltre, poteva ben essere un vanto. Certo, il sodalizio si fonda su qualcosa di così forte, e del tutto indifferente al lignaggio, che qualcuno nella secolare storia critica ha potuto parlare di una setta dei Fedeli d'Amore. A me non piace per nulla questa ipotesi da fanatici di fantasy e innamorati di Templari e Rosacroce, però che il personaggio di Guido non compaia nei regni danteschi suona davvero improbabile. Vengono allora in soccorso talune incongruenze in Inferno X, talune ipotesi affascinanti o forse pazze che giudicherete voi, talune congruenze che vogliono dichiarare che Guido Cavalcanti non è solo alluso poeticamente da tantissimi luoghi dello stile di Dante nella Commedia e in omaggio poetico e figurale, per esempio, in Matelda, ma è presente vivo e personaggio, in un tormentoso e non resoluto modo in Inferno X.

Leggiamo nella Cronica di Giovanni Villani, al cap. XLII  del Libro Nono le seguenti, interessanti tutte, parole: Ma questa parte [la parte bianca, ndr] vi stette meno a' confini, che furono revocati per lo 'nfermo luogo, e tornonne malato Guido Cavalcanti, onde morìo, e di lui fue grande dammaggio, perciò ch'era come filosafo, virtudioso uomo in più cose, se non ch'era troppo tenero e stizzoso. In questo modo si guidava la nostra città fortuneggiando. Sono fatti noti: Guido Cavalcanti, capo tra i capi della fazione dei guelfi bianchi nemica di quella dei guelfi neri capeggiati da Corso Donati, a seguito dei gravi disordini occorsi a Calendimaggio 1300, dovette abbandonare Firenze intorno al 24 giugno a seguito della condanna che fu comminata dal priorato di cui era testé entrato a far parte Dante (il 15, 9 giorni prima). La località scelta per far soggiornare gli esuli bianchi fu Sarzana, ma lì imperversava la malaria che nel giro di poche settimane fece ammalare gli esuli, tra cui Guido, che, richiamato in patria, vi rientrò il giorno 19 agosto, per morirvi o esservi sepolto il 29 agosto 1300, con ogni probabilità nell'allora cimitero di arche annesso alla chiesa di Santa Reparata...

Si veda come il decreto di espulsione di Guido sia sicuramente stato accettato, se non desiderato, da Dante, missus ab alto, secondo me, mentre il decreto di riammissione in città risalga a 4 giorni dopo che Dante aveva cessato il penoso incarico. Ora, noi immaginiamo che Dante, nel 1300, avesse maturato quella conversione all'ortodossia, di cui sopra, già da qualche anno e mal tollerasse, divenuto tetragono come lo conosciamo, la violenza politica da mattanza tra bande quale ancora Guido esercitava alla sua non più verde età, così come ci sembra in sintonia con Dante maturo (eppure così irruentemente giovane nel sentirsi tanto caricato di missioni decisive per la sua Firenze e per l'umanità) e divenuto tutto d'un pezzo l'aver sottoscritto una condanna equanime ed esemplare come fu quella che esiliò i capi di entrambe le fazioni; tutto d'un pezzo, questo Dante, determinato a difendere i principii magari anche a prezzo delle personali simpatie politiche per la parte bianca. Tutto d'un pezzo come mai sarebbe stato, era stato, fu Guido Cavalcanti, virtudioso omo in più cose, ma con un difetto, sembra dirci il Villani: l'essere nello stesso tempo due, l'avere due inconciliabili -per un uomo medievale- inclinazioni di carattere: la tenerezza da un lato, la stizzosità dall'altro. Tenero eppure capace di gesti di stizza, di dispetto, di disdegno; Dante era stato "tenero" come lui -celebratore di mai abbastanza lodati cesoiuzze e coltellin dolenti- nella fantastica immaginazione del vasel incantato, ma poi aveva scelto di tenersi al solo lato sdegnoso e lo fece sempre, con coerenza senza incrinature. La poesia di Guido è lì a dimostrare quali effetti devastanti di scissione tra le potenze sensitive provochi Amore: tutta quindi la personalità e la poesia di Guido sono sotto il segno della scissione e di questo s'è scritto tanto altrove. Farinata (lo stizzoso) e Cavalcante (il tenero) si ignorano,  ma sono insieme nella stessa arca, perché sono una stessa persona e Dante auctor che omaggia in questo canto il punto più caratterizzante la personalità e la poesia del suo vecchio amico, ce ne lascia spia, oltre da quanto già detto, da tre, almeno, celebri dettagli: Farinata ha parlato com'avesse l'inferno in gran dispitto, sdegnoso (v. 41 cfr. anche la Cronica di Dino Compagni che scrive da par suo di Guido nobile cavaliere e ardito, ma sdegnoso, e solitario e intento allo studio) ed è esattamente nel momento in cui allude al tema del ritorno (ma i vostri non appreser ben quell'arte, v. 51) che sorge alla vista dell'agens l'ombra del tenero Cavalcanti: Dante sta tornando indietro, sta rammentando il passato lontano e quello più recente e ultimo, quando assistette al funerale e alla cerimonia di sepoltura di quella persona che lui, proprio lui, aveva contribuito a mandare incontro alla morte. Era ritornato, sì, Guido, a Firenze, ma per morirvi: e bisogna comprendere il significato alto di una scelta politica, per non provare un umano troppo umano rimorso. Il secondo punto sensibile è la celebre rima siciliana (tipologia non così frequente nella Commedia) nome-come-lume nella "parte" di Cavalcante, che ricalca alla lettera, sebbene in posizioni differenti, rime di Donna me prega, capolavoro dottrinario assoluto della poesia italiana prima del Paradiso dantesco (ma non più, a mio parere), su cui ha scritto parole definitive - che qui non importa riprendere - ma ricordare sì, Maria Corti. L'omaggio all'intellettuale Guido non potrebbe essere più esplicito, ma ci dobbiamo domandare in che modo Dante modifica la serie di Donna me prega e quale punto ha scelto di quella lunga canzone e perché proprio quello e non altri. La serie in Guido è come-lume-nome; vale la pena citare l'intera parte della stanza che inizia la trattazione in risposta alla serie di interrogativi su Amore:

In quella parte - ove sta memora
prende suo stato, -sì formato - come
diaffan da lume, - d'una scuritate
la qual da Marte - vène, e fa demora;
elli è creato - (ed ha, sensato, - nome)

 

Dante ha scelto l'inizio della risposta del trattato cavalcantiano (per l'esattezza alla domanda sul dove si posa Amore), per più ragioni, non ultima la decisione di troncare subito la discussione col non parlarne proprio, ribadendo la posizione già espressa in fondo a Vita Nuova sulla natura di Amore, posizione che decisamente tracciava un solco incolmabile tra lui e Guido e che verrà ribadita nel Paradiso Terrestre. Parafrasando e interpretando il testo di Cavalcanti, si legge che Amore «dimora in quella parte dell'anima dove risiede la memoria, cioè nell'anima sensitiva e, come il diafano, cioè la trasparenza, passa da potenza a atto, e pertanto si percepisce, grazie alla luce; così, per processo analogo e contrario, la non-trasparenza di Amore è indotta dall'oscurità, dalla non-luce del desiderio (Marte); esso è creato, perché non è sostanza, ma accidente in sostanza, e ha, una volta che viene percepito, il suo proprio nome». Ora, qui a Dante non importa la questione dottrinale e filosofica, già risolta qualche anno prima del 1300, e comunque ribadita nel celebre e lettissimo Da me stesso non vegno [...] cui Guido vostro ebbe a disdegno; importa piuttosto la bruciante, appassionata, tragica vicenda politica che ha unito e ancora unirà (s'intende quando Dante scrive è già in esilio) il destino di Guido-Farinata-Cavalcante al suo. E' un destino che va oltre le loro vicende però, è il destino di un'intera città. Così, proviamo a leggere la serie dantesca:

 

Le sue parole e 'l modo della pena
m'avean di costui già letto il nome;
però fu la risposta così piena.

Di subito drizzato gridò: "Come?
dicesti 'elli ebbe'? non viv'elli ancora?
non fiere gli occhi suoi lo dolce lume?"

 

 

 

 

6. A come-lume-nome Dante sostituisce nome-come-lume in un caso, quello di Cavalcanti poeta, in cui la similitudine è stabilita secondo un procedimento logico di analogia e opposizione (diaffan VS scuritate) che piace a Dante qui, nel canto in cui mette in scena negli analoghi Farinata e Cavalcante (condividono l'arca infuocata, l'esilio, la nobilità, l'esser concittadini) gli opposti Farinata e Cavalcante (uno stizzoso e sdegnoso, e che però sospira; l'altro tenero, in ginocchio, che sospeccia e piange e però orgogliosamente rivendica l'altezza d'ingegno di suo figlio) per dire il solo Guido. Dante scrive dunque "nome come lume", e questo si può tradurre in un invito a leggere un nome che è come una luce grazie alla quale si possono intendere cose. Nei versi di Cavalcanti un nome compare in mezzo alle parole scelte da Dante, ed è Marte. Scrive Dino Compagni, contemporaneo di Cavalcanti e Dante, nell'esordio della sua Cronica: «E acciò che gli strani possano meglio intendere le cose advenute, dirò la forma della nobile città la quale è nella provincia di Toscana, edificata sotto il segno di Marte, ricca e larga d'imperiale fiume d'acqua dolce il quale divide la città quasi per mezo, con temperata aria, guardata da nocivi venti, povera di terreno, abondante di buoni frutti, con cittadini pro' d'armi, superbi e discordevoli, e ricca di proibiti guadagni, dottata e temuta, per sua grandeza, dalle terre vicine, più che amata. Ancora, sì: Firenze e ancora amore, amore di patria mal inteso, come l'amore per la donna e quello per Dio. Firenze sotto il segno del dio della guerra, il rosso pianeta Marte, come la città di Dite all'ingresso della quale stava il cimitero accanto a Santa Reparata; la città della discordia, del sangue, della passione, ancora tutta intrisa della memoria che invece sparirà del tutto nel cielo di Marte, dove Dante incontrerà tuttavia ancora qualcuno che gli ricorda la sua città, e una storia di esilio, ossia il combattente per la fede avo Cacciaguida.

Infine, non sfuggano altri dettagli. Il primo è che Farinata definisce nel suo esordio il luogo dove Dante si aggira vivo città del foco, ribadendo la predominanza dell'elemento associato a Marte (e a Dite nel canto precedente). Il secondo è che Virgilio invita l'agens che a lui s'è stretto per paura, con una certa durezza perentoria dicendogli "Volgiti!", il che non si spiega se non in senso metaforico. Il terzo, ben più importante è un'incongruenza, già notata da Maria Corti, ma segnalata nel suo ottimo saggio per dimostrare altro. Qui preme dire che tutto ci aspetteremmo meno che al verso 73 di Inferno X l'auctor chiami Farinata quell'altro magnanimo. Di Farinata si sa che Dante lo pone tra quelli che a ben far puoser gl'ingegni, alludendo sicuramente al fatto che dissuase Manfredi dal radere al suolo Firenze dopo Montaperti e forse ad altro che non sappiamo. L'aggettivo magnanimo è attribuito in tutta la Commedia al solo Virgilio una volta (Inferno II) e poi è interno alla definizione che nel Limbo si dà dei sapienti di cui Dante fa il sesto, chiamati spiriti magni. Insomma, si tratta di intellettuali. Sorprende che in questa sede l'onorevole attributo sia associato non solo a Farinata, a quel che si sa un politico puro, ma anche al personaggio di Cavalcante, che si fatica assai a considerare, tutto molle com'è rappresentato qui, magnanimo. È possibile che Dante avesse in mente davvero il solo Guido, figurato da quei due.

Infine, la celebre allocuzione di Farinata a Dante, improvvisa, ex-abrupto: "O Tosco". Soltanto in un altro luogo della Commedia qualcuno di rivolge all'agens con questo piglio ed è Beatrice, che però lo chiamerà per nome (ma era "Durante" all'anagrafe diremmo oggi) -Dante (Purgatorio, XXX, 55)- in un luogo che è una revisione letteraria definitiva di tutta la poetica del passato per l'auctor; come dire che solo Guido e poi chi lui ha sostituito definitivamente, hanno potuto dargli un nome, con la grande differenza che solo Beatrice ha saputo dargli quello che gli era proprio e che racchiude il suo destino. Del destino di Dante in Inferno X si parla: è la profezia del suo proprio esilio che lascia l'agens turbato, anzi Virgilio dice smarrito. E certamente Dante è confuso, percepisce il detto di Farinata come nemico, ma il Maestro lo rassicura dicendogli che Beatrice gli dirà di sua vita il viaggio. Strano che Virgilio, che vede bene nell'animo di Dante, come più volte ribadito nel poema, qui lo interroghi sul suo stato: è possibile che l'auctor qui volesse scrivere una parola precisa e cioè smarrito, come già all'apertura del poema, e in Inferno V, dove si parlava ancora, sebbene esplicitamente, di teoria d'amore; e volesse ritornare, sì, ma avanti, verso Beatrice.

Resta da accennare a due ultime questioni: la prima è il contrappasso a cui gli epicurei sono sottoposti; la seconda è la crudeltà dell'agens che tarda alcuna dimora a rispondere al padre ansioso Cavalcante, sebbene poi trovi una giustificazione e si senta in colpa. E' senz'altro valida l'ipotesi che coloro che l'anima col corpo morta fanno, vale  a dire gli averroisti, siano da considerarsi dei morti già in vita e pertanto le arche raffigurino il loro pensiero; quanto all'essere infuocate, invece, non è molto credibile l'opinione che il fuoco rappresenti la pena riservata agli eretici, perché gli storici sono concordi nel ritenere che non si procedeva se non rarissimamente al rogo per eresia in età alto-medievale; anzi, fu per la prima volta Federico II di Svevia (proprio lui) a stabilire che la pena per gli eretici dovesse essere il rogo, ma la legge ebbe scarsa applicazione. Piuttosto, il fuoco trattiene in questo caso tutta la sua valenza astrologica e simbolica tradizionale di luce intellettuale da un lato, e ardore appassionato dall'altro. A Marte si associava, in quel sapere astrologico caro a Dante (che sottolinea nel cielo di Mercurio di essere giunto nella sua costellazione, poiché era dei Gemelli) il fuoco (per li grossi vapor Marte rosseggia, in Purgatorio II), e al segno infantile e bellicoso dell'Ariete che è anche il segno iniziale, primaverile, nel quale cade la settimana santa del 1300 in cui Dante immagina di cominciare e terminare il suo viaggio oltramondano. Qui Guido Cavalcanti l'averroista è in un'arca perché in un'arca Dante con ogni probabilità lo vide seppellire nei giorni finali del tragico agosto del 1300; quest'arca è infuocata, perché Marte ha distrutto Guido: il fuoco intellettuale e il fuoco della passione politica violenta che lo animavano e che sono peraltro anche il segno di Firenze. Nella costellazione di significati che Marte trascina con sé non sfugge che è sotto la sua egida che viene la primavera e che la donna, secondo Dante, di Guido, ha nome Giovanna e si tratta di Giovanna-primavera, colei che precede la venuta di Beatrice-Cristo. Restando in tema di contrappasso, è chiaro che l'auctor non è affatto resipiscente, per quanto il cuore gli sia un poco in subbuglio, perché gli averroisti sono condannati alla morte di ogni conoscenza - mentre ora vedono nel futuro lontano, non vedono nel presente e non vedono nemmeno nel futuro vicino, e quest'ultimo è uno stratagemma ideato unicamente perché possa Cavalcante domandare a Dante del figlio - e lo sono perché l'amore che li guida viene dalla scuritate di Marte che li ha avvolti nella cecità intellettuale e insieme politica. Si è volto, dunque, Dante; sta riconsiderando il passato recente, carico di dolore, anche, non solo, per le scelte che egli aveva fatto da funzionario di stato: l'uomo, il politico, l'intellettuale tutto d'un pezzo non vuole, non può parlare apertamente di Guido, perché forse si tratta della sola tragedia che davvero lo fa vacillare. In questa chiave mi piace leggere quella dimora, quel ritardo, quella lentezza nel rassicurarlo che abbatte definitivamente in fondo all'arca arroventata Cavalcanti padre (Farinata con ogni evidenza, avendolo ignorato prima, continuerà a ignorarlo poi e mai riferirà che Guido è ancora vivo il 9 aprile del 1300), che è come dire che ne decreta, ribadendola, la scomparsa dalla scena della commedia-mondo.

 


 

 

 

 

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