Dante e Beatrice precipitano veloci come frecce fin dentro il corpo stesso
della Luna, e lo attraversano questionando. Immersi in quel
dentro di opale, discutono secondo scienza la natura della prima
stella: la sua luce cangiante, il perché de «li segni bui / di
questo corpo» (vv. 49-50).
Quale scienziato non amerebbe
tanta simbiosi tra occhio matematico, cacciatore lucido di
inferenze che si slanciano fino all’universale, e l’immersione
intima, olistica, con la cosa che si sta conoscendo?
Il
compagno segreto
s’è innamorato di questa idea: un’esplorazione tra i libri che
raccontano l’avventura dello sguardo umano sulla Luna, partendo
proprio dal mirabile canto – il più difficile? – con cui Dante
seleziona per l’ultima volta i pochi lettori sopravvissuti fino
a quel punto della sua Commedia
(«O voi che siete in piccioletta barca… tornate a riveder li
vostri liti»! vv. 1-4).
Vorremmo arrivare dove già
siamo: nel tempo delle sonde e dei telescopi orbitanti, tra i
nipotini di Jules Verne e di Kubrick,
vorremmo soprattutto passare per Galileo: il più grande
prosatore della letteratura italiana, mostrò Leopardi
nella sua Crestomazia coraggiosissima, il filosofo
scienziato che «abbassa l’idea dell’uomo e la sublima» (Zibaldone,
I 84).
Tutto questo per un osanna
all’osservazione e all’entusiasmo: all’attenzione innamorata del
proprio oggetto.
Leggeremo operone e operette
di ciò che canoni e convenzioni ci hanno insegnato a distinguere
in «scienziati», «filosofi» e «poeti»; magari scoprendo - di
fronte alla pagina offerta nuda e libera al lettore - che alla
domanda scolastica se l’autore sia un fisico o un letterato, la
migliore risposta potrebbe essere: indovina, merlo.
Per la primavera del
2008