"Il Compagno segreto" - Lunario letterario. Numero 10, maggio 2005

         Sophonysba Poliakoff

      Notte tedesca per Quartetto Italiano

               Ovvero: Dmitrij Shostakovich e il culto della Forma al tempo delle purghe


E pensare che ci stavo per incartare un bicchiere rotto. Era la pagina ingrigita di una vecchia rivista dove si raccontava con dovizia di foto dagli stinti colori pop la missione della sonda spaziale Voyager. Era il 1977 e io ero bella come una fata: demodé dunque fin dalla nascita. Ricorderete quel robot volante destinato ad attraversare il cosmo come la bottiglia col messaggio di noi naufraghi lasciati alla piccola Terra; e se non lo ricordate, vorrà dire che, a differenza di Robinson, vi siete anche dimenticati di essere naufraghi, il che non è detto che sia un male.

Ho riletto il vecchio articolo d’un fiato, con la meraviglia senile di chi scopre che ha dimenticato del tutto una cosa degna invece di mille fantasie.  


Del resto, ormai ho talmente poche allieve che mi resta tutto il tempo per fantasticare: è il tempo più fatuo e, a una certa età, il migliore. Pazienza se il vecchio Bösendorfer s’impolvera. In questo caso, come avranno fatto tutti allora, ho reinventato anch’io le mie storielle sul disco d’oro che l’alieno estrarrà dalla lunare scarabàttola del Voyager… in teoria, vi troverebbe quanto serve per credere che la piccola sonda sia arrivata da una stella magnifica. Chissà. Osserverà e ascolterà miracoli qui giù troppo consueti: il sistema periodico degli elementi, la pioggia, una risata, le spire del DNA, il vento, il vulcano, lo schiocco di un bacio, tre supremi assaggini di Bach, due di Beethoven, uno di Mozart, e cari saluti in 55 lingue dal piccolo pianeta: evidentemente non lontanissimo nel Cosmo degli evi luce, visto che la navicella è pur arrivata da qualcuno prima di farsi polvere.

Su questi alieni se ne sentono da sempre di tutti i colori. Il mio è ancora molto sfocato. Magari avrà gusti e nervi strani, e troverà più eufonica la fotografia di un supermercato che Stravinsky che si dirige nella Sagra. Temo che, alla lunga, il bric-à-brac arcano e sospetto costipato nel disco dorato sembrerà la valigia dimenticata di una Nonna Speranza in demenziale viaggio galattico, una cornucopietta di buone cose di pessimo gusto esposta a tutti i fraintendimenti tra cabala caos e cacofonia: ma chissà poi, chi può mai dire… l’alieno farà zapping, o resterà ad ascoltare tutto intero il primo movimento della Quinta (sotto la bacchettona monumentalissima e corrusca di Klemperer!)?... e poi Louis Armstrong, i tamburi senegalesi, Glenn Gould e Johnny B. Goode… il troppo stroppia in tutto tranne in Mahler, che però qui manca. Chissà.  


Io ho una natura troppo semplice per essere davvero una pessimista,  così credo che l’incontro ravvicinato di un qualunque tipo darà i suoi frutti. Posto che il Voyager precipiti illeso su un pianeta di alieni non troppo zoticoni, almeno qualcosa di noi stracapiranno… nascerà nelle loro università –si sa che luoghi di assidui disastri siano quelli – corsi di laurea in vo-ya-ge-ro-lo-gìa, dove sarà passato al vaglio tutto il contenuto del disco con autocompiaciuta accademica autoreferenza, coltivando un gusto sempre più sottile e specioso per corrispondenze che neppure Baudelaire… le cartoline del grattacielo delle Nazioni Unite di giorno e di notte, le silhouette del maschio e della femmina, il canto ingolato di un Navaho, la Grande Muraglia, un vecchio contadino solo in un campo, e… ta-ta-ta-taaaàn!.... di nuovo Beethoven: la Cavatina dal quartetto d’archi n. 13 in Do. Esegue il Quartetto Italiano. Se l’extraterrestre onusto di accademici allori non si spoglierà almeno qui di se stesso e non resterà persuaso della bontà infinita del cosmo, dev’essere proprio un orrido Alien. Meglio allora che resti dov’è.


A me, che alienata sono sempre stata un pochino, già solo ai cari nomi di Elisa Pegreffi o di Franco Rossi (secondo violino e violoncello) la corazza del sussiego si scioglie, e dilaga l’ambrosia di ricordi senza tempo… ah, l’andante del quartetto op. 18 n. 2 del giovane Beethoven, il primo movimento del tardo op. 131; le Dissonanze di Mozart, e Schubert!… mi perdo, ed è solo l’inizio di un elenco di infiniti, provati da sotto la pelle d’oca e le ghiandole lacrimali in su, grazie al primo Quartetto al mondo che si chiamò col nome del proprio Paese… e che di Italiano, detto tra noi, aveva cose che dovrebbero oggi apparirci stupefacenti, data l’evidente deriva al peggio della genìa di Pressapocòpoli: lo studio infinito, il rigore, l’autocritica feroce, il virtuosismo (ma per una «musica amata più del proprio strumento», Paolo Borciani, primo violino) di quattro artisti eccelsi e troppo intelligenti per ridursi a un conclave di prime donne… piuttosto: l’apertura al mondo attraverso la finestra dello spartito, come se la musica rivelasse la vera danza che anima le cose, e tanto più se con quell’estro in quel rigore!


Solo chi ha vissuto davvero ha una storia: gli altri si agitano tra cronaca e moda, come dire da nessuna parte. - All’inizio, appena finita la guerra, i quattro giovani avevano per faro il classicismo essenziale, per non dire drastico, di Toscanini, il cui equivalente tra i quartetti poteva essere il celebre Quartetto Busch: inesorabilità ritmica, abolizione dei fronzoli, una sana “fretta” per far sentire che un’opera musicale anche complessa ha una logica e un pensiero!

Tutte cose sacrosante ma non abbastanza: solo il migliore degli inizî, perché impongono studio, virtude e conoscenza, perché sono il miglior viatico per la magia… che accadde una notte a Salisburgo. Era l’agosto del 1951. Alla fine di un concerto, il già celebre Quartetto passò la notte a suonare e risuonare con Wilhelm Furtwängler nella sua stanza in albergo il Quintetto op. 34 di Brahms! Notte lunga e generosa, che aprì a rivelazioni liberatorie: da lì «è disceso tutto nella nostra vita» (Paolo Borciani).


Forse è proprio vero che, se non si nasce almeno due volte, non si è nati mai. 

«La sua grande libertà, il suo immenso respiro, l'intuizione tragica… ci hanno aperto il mondo… Noi abbiamo vissuto una crisi di quasi un anno dopo aver incontrato Furtwängler, perché avevamo compreso che la musica si faceva in un altro modo… La sua idea della musica è stata per noi una folgorazione come se sotto di noi si fosse spalancato l'infinito» (Elisa Pegreffi)

Cos’era successo? Tutto, tutto in una notte: la rivelazione che il suono non va solo eseguito nell’obbedienza al puro segno sullo spartito (come se la fedeltà non avesse i suoi pericoli terribili!), ma animato, il suono come «un mezzo se necessario perfino da brutalizzare» (D. Courir, Prefazione a G. A. Borciani, Il Quartetto Italiano - Una vita in musica, Reggio Emilia 2002), se questo serve a quell’indicibile esattissimo che è sempre la grande musica!...

Quale frase più furtwangleriana di questa, che Borciani dirà un po’ d’anni dopo? «Il tempo (Allegro; Adagio; Allegretto ... ) è una indicazione d'autore che è quasi sempre esatta. I metronomi no»? - I Quattro capirono fin nelle viscere quello che il Maestro, più che dire, soprattutto provò col pianoforte. Fu il dono: il dono di «traguardi inventivi abbaglianti raggiunti con un tratto bruciante»(D. Courir, op. cit.). 

Da allora ci fu l’abisso, e la rotta nell’abisso.

 

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