"Il Compagno segreto" - Lunario letterario. Numero 8, luglio  2004

 


Elogio degli uccelli di Giacomo Leopardi

 

 

5.  Come godere del saperetroppo

 

 

 


“e tutto quanto il ver pongo in obblio!”  

(Il pensiero dominate, v. 106)

 

“natura, illaudabil meraviglia” 

(Sopra un bassorilievo antico sepolcrale, v. 46)

Con Leopardi giovane, siamo subito al punto in cui ogni allegrezza è una dimenticanza. Con conseguenti lodi di tutto quanto faciliti l’accesso a stati dell’essere ilari e obliosi: vino, droghe, sonno, velocità, e in genere tutti i generi di suspance di una vita affettiva e fattiva...

Eppure, anche quando questa era la strategia principe del giovane ultrafilosofo, Leopardi sapeva anche le gioie, poi sempre più prevalenti, del contrario: perché proprio “l’eccessiva curiosità del vero ci procura molti piaceri” (Zib. 179)

Ci si avvita così in un paradosso del resto indispensabile. 

Perché, proprio “l’eccessiva curiosità” fa inevitabilmente conoscere e sentire sempre e solo che “nessuna cosa è assolutamente necessaria”, e che “cioè non v’è ragione assoluta perch’ella non possa non essere” (Zib. 1341). Ogni cosa è infimo arbitrio del Nulla, discontinuità effimera del Vuoto.

Ma allora, nella lampante assenza di un Dio e di un senso, come divertirsi del (e dal!) fatto che, benché “benignissima del tutto, ed anche de’ particolari generi e specie” (Zib. 1530), l’essenza vera del procedere della Natura sia lo zero irrimediabile della morte? - Per chi ha spirito e non gnagnera, proprio verso tutto questo nasce prima il piacere semplice di saperlo, e poi quello - geniale - del saperlo cantare.

Questo è l’ultimo campo sterminato per strategie del piacere da togliere il fiato: anche se per i più, o, come dirà Tristano, per le “masse” (“per usare questa leggiadrissima parola moderna”), si tratterà inevitabilmente di strategie di piacere eccessivamente scabrose. 

E’ infatti solo con l’adulta sapienza del Nulla che si può giocare il gioco del canto e della danza, della musica e della dimenticanza che azzera nella sua bellezza la morte che si dimentica senza dimenticare:  “L’infinità della forma del dire poetico è il punto più alto al quale l’esistenza dell’uomo può giungere nel suo tentativo di sollevarsi al di sopra del nulla. Il nulla e la poesia sono i termini essenziali della dialettica dell’esistenza, che sta per presentarsi” (E. SEVERINO, Il nulla e la poesia).

     

Se in Italia ci volle il suo tempo plurisecolare almeno per intuire queste cose, Schopenhauer disse tutto subito in un solo lampo di righe quando scrisse che Leopardi - e  nessuno come lui -  rappresenta il nulla della vita “con tanta varietà di forme e di espressioni, con tanta ricchezza d’immagini che non suscita mai insofferenza, ma rimane sempre stimolante ed avvincente.” (Il Mondo come volontà e rappresentazione, IV, 46).

“Varietà di forme e di espressioni” è proprio quanto Leopardi ammirava negli uccelli, “esempi di sveltezza e vispezza” (Zib. 1716), cima spettacolare dell’euforia d’essere che ovunque palpita nella “illaudabil meraviglia” del creato (Sopra un bassorilievo antico sepolcrale, v. 46).


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