"Il Compagno segreto" - Lunario letterario. Numero 8, luglio 2004                                          


Ogni scrittore, come ogni persona, ha le sue stelle d’orientamento, e a sua volta è stella (danzante?) per altri. 

Proviamo a segnalarne qualcuna

 

L'Elogio degli uccelli di Giacomo Leopardi 

 


 

 

16. I Greci

 

 

 


 

Cosa Leopardi non ha capito dei Greci?

 

 

Felicità  non è altro che contentezza del proprio essere 

e del proprio modo di essere, soddisfazione, amore perfetto 

del proprio stato, qualunque del resto esso stato si sia, 

e fosse pur anco il più spregevole.” (Zib. 4191)

 

 

“...che cosa Leopardi non coglie dei Greci? La capacità ch’essi ebbero di tenere misura a fronte dello smisurato. Quest’atteggiamento non è di onnipotenza; al contrario è un modo per valorizzare il contingente, per dominare il caso. Molto spesso si squalifica la sapienza perché da essa si pretende troppo: la si vuole infallibile. E se non è tale è vana. Al contrario, sapiente davvero è chi regge nella precarietà senza pretendere l’assoluto. Questo modo d’essere conquista il tempo, resta aperto al futuro. Al futuro prossimo, potremmo dire, del giorno dopo. Su questo Nietzsche - direi un certo Nietzsche - ha visto più giusto. In molte circostanze Leopardi rivela rispetto a Nietzsche una superiore grandezza.  In primo luogo non ha enfasi: è attento all’ogni giorno degli uomini, alla prosaicità della vita, al dolore, alla fatica dei piccoli - come tutti effettivamente siamo. Leopardi è antieroico. Non fugge per la tangente: per questo, alla fine, è capace di pietà. Al contrario, Nietzsche in taluni casi mostra una sfacciata spietatezza: è vanagloria, non disincanto. Leopardi, invece, è assolutamente realista. Non può essere - come lo è Nietzsche - erede e per molti versi ancora subalterno all’io idealista. Eppure, circa la possibilità di darsi uno scopo, Nietzsche vede più giusto. Bisogna essere fedeli al presente anche se trapassa. Di quel che esiste nulla è vano: la fine non impedisce il  fine, la morte non può mai costituirsi come un’obiezione contro la vita. I Greci l’avevano capito” (S. NATOLI, in A. PRETE, S. NATOLI, Dialogo su Leopardi).

 

Forse Natoli a sua volta forza. Già solo nelle Operette, c’è Plotino, l’Ottonieri, Amelio... lo stesso Islandese è posto dall’autore in un marchingegno narrativo fatto perfettamente a posta per il suo dileggio, per lo sberleffo alle sue domande “smisurate”: si può forse negare che la doppia morte dell’Islandese sia comica?

 

Se Natoli scrive che un errore essenziale di Leopardi (o del giovane Leopardi?) è proprio la vocazione all’infinito, perché “la nostra possibilità di godere non è infinita: l’infinito è una svista della vita immediata” (Ib.), Leopardi aveva già pensato e ripensato che “l’uomo ha perduto la perfezione volendosi perfezionare” (vedi l’operetta che inaugura il libro, la Storia del genere umano). E uno dei centri di Leopardi è provarsi a capire perché.

 

Provando a dire lo stesso ma con un altro giro: l’errore della “troppa cura” - come lo chiamerà Giorgio Caproni in una lettera - è anche nel Pastore che fa smisurate domande alla luna, o il fatto che quelle domande siano cantate ne fa qualcosa di ironico e sublime, di vertiginosamente misurato?

 

Non è sempre un errore, leggendo una poesia come una prosa, farsi troppo sviare dal contenuto?

 

(Su Nietzsche, vedi anche la prima costellazione sul Papageno del Flauto Magico di Mozart e la dodicesima)


 

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