"Il Compagno segreto" - Lunario letterario. Numero 8, luglio 2004

 


 

Elogio degli uccelli di Giacomo Leopardi

 

 

2.  Parole ingrate

 

 


 

“...perché le parole e gli scritti importano poco.”

(Dialogo di Timandro e di Eleandro)

 

Ah, l’Italiano, che occasione sprecata!

Una lingua non meno che “immensa”, e tale già per “quella sua immensa facoltà di dare ad una stessa parola, diverse forme, costruzioni, modi ec.” (Zib. 1332) e che pure ogni giorno perde bellezza di vocaboli e di costruzioni, come uno spaventapasseri i suoi stracci al vento.

 

Possibile che i cosiddetti Romantici (che poi qui da noi non sarebbe mica come dire sétte di forsennati lettori di Novalis o quanto meno del Werther, ma blandi propugnatori del cattolicesimo applicato alle lettere!) non si rendano conto che non è abbassando la lingua da Kafka al papà di Kafka che si inventerà la Letteratura Universale? Tanto vale dedicarsi all’esperanto!

 

 

L’aristocraticità inevitabile del bello sarà anche una cosa imbarazzante quasi quanto mangiare con coltello e forchetta al tavolo di chi mette i gomiti nel brodo, ma non la si risolverà mica, come faceva Zeno ipocondriaco, prendendo a zoppicare solo perché si va a spasso con l’amico con artritico!

Né basta tirarsi fuori dal mucchio selvaggio, e farsi una lingua levigata come una gipsoteca del Canova; e lì rifugiarsi come in un Nirvana, fuori dal diluvio del Tempo, in un per sempre neoclassico di casta bellezza bianca!

 

Questo perché “non basta che lo scrittore sia padrone del proprio stile. Bisogna che il suo stile sia padrone delle cose: in ciò consiste la perfezion dell’arte, e la somma qualità dell’artefice” (Zib. 2611). A loro volta, le “cose” non stanno ferme neppure un minuto, per cui anche “la lingua cammina sempre, perch’ella segue le cose le quali sono instabilissime e variabilissime” (Zib. 754). - Guicciardini non direbbe meglio.

Figurarsi però se Leopardi può contentarsi di indicazioni, per quanto inappuntabili, così generali. La risposta sorprendente, e ostica del tutto per la patria di Rosmini e Metastasio, è infatti cosa il Nostro intendesse per una lingua che fosse “padrona delle cose”: averla sarebbe il vero salto nel Moderno, trattandosi di una lingua che deve assolutamente impregnarsi del meglio della filosofia. 

Il che però apre subito un secondo fronte.

 

Perché non si può mettere Locke e Kant al posto di Monti e Berchet, dato che, a sua volta, la filosofia attuale è deserto matematico, gelo della ragione che tutto calcola, mentre “una lingua non è bella se non è ardita, e in ultima analisi troverete che in fatto di lingua, bellezza è lo stesso che ardire... Or questo ardire che cos’è, fuorché la libertà di non essere esatta e matematica?” -  Ad una filosofia non “geometrica” risponde una lingua altrettanto ardita e “peregrina” (Zib. 2415 sgg)

 

Ora, poiché tutto ciò (una lingua italiana di nuovo “immensa”, allo stesso tempo ultrafilosofica e spretata!) non è né sarà, e poiché invece il futuro del Paese è in mano alle anime belle che credono in un provvido incedere del Bene verso il Meglio, credenza nuova per cui basta la grammatica elementare di una fede stupefacentemente “debole” (il Dio buono, la Patria buona, perfino la Storia buona!), chi invece volesse armarsi di quanto gli serva per una battaglia più degna e divertente con l’esistere, ecco, “a questo tale è duopo apprestarsi prima di tutto una lingua colle sue mani”  (Zib. 3327-28).

Il che Leopardi naturalmente fece, con risultati non meno immensi per il fatto che la Nazione intera neppure lo prese in considerazione, abbagliata come rimase dalla soluzione proposta dal romanzo di Manzoni, per cui “a nessuno poteva passare per il capo che le Operette morali reggessero il paragone” (C. Dionisotti, Appunti sui moderni).

 

Ecco, adeguatissima, una diagnosi della lingua delle Operette: 

 

“...andamenti funzionali allo sviluppo lineare del pensiero e alla sua impareggiabile chiarezza, non senza effetti anche di rallentamento melodico e di “filosofica” pacatezza: nessi correlativi, strutture anaforiche, sequenze binarie, frequenza di incisi esplicativi, ecc. Questi ultimi caratteri non andranno tuttavia sopravvalutati rispetto alle continue sorprese che la mobilità stilistica consegue in parallelo con la variazione fantastica: contrasto e dramma, emozione e «movimento»...” (L. Celerino, Operette Morali, Letteratura Einaudi).


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