"Il Compagno segreto" - Lunario letterario. Numero 7, maggio 2004                                         


Ogni scrittore, come ogni persona, ha le sue stelle d’orientamento, e a sua volta è stella (danzante?) per altri. 

Proviamo a segnalarne qualcuna

 

"Fondamenta degli Incurabili" di Iosif Brodsky

 


 

 

3. Gabriele D'Annunzio

 

 

 

“Ora sono un simbolo tremante di cose più grandi di me”.

(Hoffmansthal)

 

Una grande salle à manger, mobilia arcigna e altera, il tramonto avvampa già nel sangue, tragico aggrapparsi alle tende. Gli effluvi del tè svelano spirali di memorie dimenticate: silenzi, incontri, viaggi esotici in su la cuna del mondo. Uomini eleganti sussurrano menzogne, viluppati in scialli d'eccentricità. Uno di loro s'alza, prende a sibilare un sonetto di D'Annunzio. Appena schiusa la prima quartina, un'altra voce, fulminante e necessaria, gli si insinua a contrasto. Giunge turgida, perentoria, dall'angolo più buio del salone, e i versi ne risultano come trasfigurati. D'un tratto persino gli stucchi son lambiti da insospettabili sottigliezze, trascurate sino ad allora dalla dizione poltosa del primo dicitore. E' D'Annunzio quel canto, è il poeta in persona, ormai decrepito, che intona i propri versi. Così in una pagina dei Diari di Harold Nicholson, così Stelio Effrena a Venezia: un guizzo di Fuoco nel gemere silenzioso d'aria e pietre: la città che impoltriva nelle morbidezze dell'agonia prende d'incanto a maledire la propria stessa decadenza, rifiutando, superba, la solidarietà inerte dell'oblio di sé.

 

Eppure tutto è fola, irrequietezza che giunge puntuale al momento di partire, sferzata d'orgoglio di tra quei congegni squamosi che son i congedi. Il destino di Venezia è immalinconire, avvinghiarsi alle foresta dei propri pali (“ce ne vollero un milione soltanto per sorreggere la Salute; e non basta”). Ovunque ruggine tizianesca, fulva di malaffare, a corrodere le dorature trapassate. E persino le bitte d'ormeggio, incatenate alle proprie radici, ad avvilirsi sullo sviolinio insinuante delle zanzare (han già lasciato il posto all'interventismo di mosche melliflue).

 

Venezia muore marcendo, e Stelio Effrena, compositore wagneriano, ovvero “pigrizia dorata di trarre da una canna la pienezza di un suono” (Mandel'stam), potrà far solo le mostre di addolorarsene (ma intanto goderne). La città "lussuriosa, autunnale e regale" lo eccita: è la caritatevole fiamma che lenisce la lebbra, è la vampa morbosa su cui rosolare il tedio di vite comuni.

Dopo, solo il crepuscolo: il lume incerto che non mai trafigge la parola, ma ne manifesta l'esoterico significato: “La mutua passione di Venezia e dell'Autunno, che esalta l'una e  l'altro al sommo grado di lor bellezza sensibile, ha origine in una affinità profonda; poiché l'anima di Venezia, l'anima che foggiarono alla Città bella gli antichi artefici, è autunnale.  Avendo io scoperta la rispondenza tra l'esterno spettacolo e l'interiore il mio gaudio ne fu moltiplicato indicibilmente. […] E - poiché la luce  del cielo s'avvicenda con l'ombra ma la luce dell'arte dura inestinguibile nell'anima umana - quando cessò nelle cose il prodigio dell'ora, il mio spirito si trovò solo ed estatico tra le magnificenze di un Autunno ideale” (Il fuoco, 1900).

 

Hugo von Hoffmansthal si trova d’accordo. La lettera dell'Ultimo dei Contarin, abbozzata di lì a poco, è in tal senso esemplare. Lì indurisce lo sguardo del mendicante, lì si fa d'ardesia a furia di speranze illacrimate, eppure ancor guizzante ammirazione cupida e servile. Il segnale: solo allora si comprende come sia vizzito ogni blasone di famiglia, quanto sia più savio smetterla,  cessare di cercare “nel Gotha quelle che avevano diciassette anni, adorne di meravigliosi nomi antiquati come gli antichissimi severi monili bizantini”: “il possesso delle singole cose conviene ad anime infinitamente più fresche, più ingenue; a noi conviene solo il Possesso Ipotetico”.

 

Nulla può davvero restaurarsi: "lo splendore delle perle gli antichi lo avevano dentro”.

Per chi non tenga in conto i ripicchi vendicativi del Tempo, rimane la compagnia, a tarda sera, dell'eco frantumata di barbagli remoti: “Sull'eternità allunga le mani chiunque a derubarla, ma essa è rena” (Mandel'stam).

 


 

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