"Il Compagno segreto" - Lunario letterario. Numero 2, gennaio 2003


 

"L'Amore" di Stendhal:

 

9. Poiché si deve morire

 

 

 

Si sa che si deve morire, e dunque perché pensarci? – L’idea va benissimo per un vecchio libertino, ma avrebbe l’assenso di un pratico saggio taoista. E dunque, sarà quando sarà, sperando che sia indolore: possibilmente, come pensava già Voltaire per la morte ideale, nel sonno.

Non esiste nessun Dio con cui incontrarsi: si muore come si nasce, dalla laconicità del nulla. Tanto vale evitare la tenaglia scema del dolore. 

Anche sulla morte, aveva espresso un desiderio nei Privilegi: “per apoplessia”, nel sonno e “senza dolore fisico”.

Sarà accontentato per metà: per apoplessia, ma in una strada, con poco dolore, anche se gli ultimi anni erano stati pieni di acciacchi: coliche renali, dolori di stomaco, gotta, emicranie, vertigini, malaria (non curabile col chinino per non far soffrire i reni), un indefinibile stato di malessere “sottile”… - già in una nota del 1840 si chiedeva “In totale, val la pena di vivere?”.

Si curava soprattutto con grandi bevute d’acqua.

A Civitavecchia, il 15 marzo del 1841 ebbe un primo colpo apoplettico: “mi sono azzuffato con il nulla”, scrisse all’amico Merimée.

Non si riprese mai del tutto. Chiese e ottenne un congedo e tornò a Parigi nell’ottobre del 1841. Sono gli ultimi mesi: 22 marzo 1842, ha appena firmato un contratto con la “Revue des Deux mondes”: 5000 franchi per due volumi di romanzi di novelle. Ha i soldi in tasca. Ma alle sette di sera, sul marciapiede di rue Neuve-des-Capucines cade colpito da un nuovo attacco apoplettico. Muore durante la notte, senza aver ripreso conoscenza. I soldi gli erano intanto stati rubati, lo stesso la tabacchiera d’oro.

 

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