"Il Compagno segreto" - Lunario letterario. Numero 2, gennaio 2003

"L'Amore" di Stendhal Da Henri Beyle a "Stendhal"

Dai mille pseudonimi a "Stendhal"


Jean-Luis Ducis, Stendhal

Stendhal ha sempre avuto un problema con il “suo” nome: Henri Beyle. - Intanto avrebbe voluto il cognome della madre, essere quindi un Gagnon. Pablo Picasso non è Ruiz proprio per aver scelto una volta per tutte il cognome materno, che invece Stendhal non usò mai. 

Quando cominciò a scrivere, fu invece il carnevale dei nomi: pubblicò in vita ventitré libri, nessuno firmato col suo nome e cognome: sei sono anonimi,  tre indicano l’autore con iniziali fantasiose, uno lo firma “Louis-César-Alexandre Bombet”, due “F. de Lagenevais”, nove Stendhal.

“Beyle” lo volle solo sulla lapide, ma italianizzando il nome (“Errico”) e facendosi nascere non a Grenoble ma a Milano.

Se poi andiamo a vedere le lettere, gli pseudonimi diventano innumerevoli: facendo cifra tonda, in tutto circa trecentocinquanta. Voltaire, altro giocatore di nomi, è lasciato abbondantemente alle spalle: ne aveva usati solo centosettanta.

 

Quando pubblica la sua “Roma, Napoli e Firenze nel 1817”  Beyle sceglie un nuovo, ennesimo pseudonimo, che finirà per “battezzarlo” definitivamente: Stendhal.

Victor del Litto spiega,  nella sua biografia dello scrittore, il motivo della scelta del nome, stanco di vedergli affibbiare l’etichetta perenne di fantasioso. Oltre la musica e l’arte, temi conduttori di “Roma, Napoli e Firenze”, si percepisce  un costante rumore di fondo,  che si rivela solo a un’attenta lettura: “l’influenza di un uomo sull’Italia”. E’ Napoleone. 

 

Quest’opera  è più di una guida e di un quaderno di viaggio, non è un  semplice e dotto racconto da Grand Tour, ma un’esplorazione profonda e intima, in cui, come sempre,  la descrizione dei luoghi respira insieme ai diversi caratteri degli uomini che vi abitano. E’ il resoconto dell’Italia dopo la caduta dell’impero e l’avvento della  Restaurazione.

In questa nuova atmosfera, le idee di Henri Beyle, da sempre sostenitore di Napoleone,  risultano pericolosamente sovversive, così decide di prendere alcune misure precauzionali. 

 “Monsieur Stendhal, Ufficiale di cavalleria” è la firma del libro  per esteso. Stendal è la  cittadina vicino a   Berlino, in cui nacque Winckelmann. Del Litto non cerca possibili legami con  l’archeologo, ma nota che un nome tedesco, reso ancora più tedesco per l’inserimento di quell’ "h",  si prestava ad allontanare i sospetti dei malevoli, ad esempio a Napoli, una delle mete più importanti del suo viaggio, dove vi erano i Borboni, che poterono  riprendersi il trono grazie all’appoggio degli austriaci e dei prussiani. Come ulteriore precauzione,  Beyle si fa passare per un ufficiale di cavalleria, perché questo ruolo non avrebbe destato sospetti di  idee sovversive. 

E ancora più prudentemente, Milano non è citata  nel titolo del  libro, nonostante che a questa città siano dedicate molte pagine! 

Ecco spiegato l’arcano di questo strano nome,  interrotto dal singhiozzo afono dell’H. 

Comunque, l’escamotage  non servì a niente: il decreto di espulsione,  scritto dal prefetto della polizia di Vienna nel 29 gennaio 1828, lo accusò di essere un “pericoloso straniero e  autore di quell’opera malfamata”. 

Non un gioco, dunque, ma una scelta obbligata dal timore. Rimase solo lo scherzo involontario (per una volta!) dell’H. A lungo i poliziotti che lo pedinavano, come i suoi esegeti, compreso Balzac, autore di un  articolo fondamentale  sulla Certosa di Parma, non seppero dove piazzarla. Il grafema senza suono finiva sempre nel  posto sbagliato: Sthendal, Stendahl,

 

di F.C. e M.M.M.

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