"Il Compagno segreto" - Lunario letterario. Numero 10, maggio 2005                                         


Ogni scrittore, come ogni persona, ha le sue stelle d’orientamento, e a sua volta è stella (danzante?) per altri. 

Proviamo a segnalarne qualcuna

 

Degas Danza Disegno di Paul Valéry

 


 

 

17. Glenn Gould

 

 

 

 


 

“…io ho lavorato molto per persuadermi che il pubblico non esiste...”

(G. GOULD, No, non sono un eccentrico)

Molto vicino alle idee che si leggono in questo numero, è l’estetica musicale del grande Glenn Gould, di cui il c.s., qualche tempo fa, un po’ si occupò.

 

Più di qualunque altra cosa, Gould amava suonare la mente; e i suoni che pensava non erano neppure necessariamente di pianoforte: a volte di clavicordo altre di liuto, o di violoncello o di organo: spesso erano poi suoni puri, senza corpi precisi, suoni – come per l’ultimo Bach - perfino indifferenti a quel che avrebbe potuto diventare il loro corpo futuro. – Molto più che negli strumenti, la musica si coverebbe in quei giochi tra suoni da Iperuranio, suoni platonici, suoni che potrebbero restare a intrigarsi e districarsi sulla carta del pentagramma o nel libro della memoria, e che ci perderebbero ad essere incarnati in qualunque suono di questo come di ogni altro mondo.

 

La musica era un pensiero che nel pianoforte trovava appena un transito tra i possibili: era un'idea pura che s'incarnava sì nel suono ma solo per tendere di nuovo all'incorporeità: questa volta di chi ascolta. – Perfino questo, del resto, potrebbe non essere necessario, perché, a rigore, riguarderebbe solo chi non ha abbastanza virtù e conoscenza da apprezzare la musica senza bisogno delle corporee mediazioni di un interprete-medium. - Un mondo perfetto sarebbe stato per Gould pieno di musica e vuoto di strumenti: pieno di musiche puramente mentali, trasmesse per telepatia, direttamente lette nei pentagrammi dell'intelletto. L'uomo musicale perfetto, come  Beethoven, forse allora è sordo, disincarnato da qualunque entropia del suono concreto. Quel fortunao non suona ma compone; non ascolta ma ricrea dentro di sé...

 

     

 

Gould suonava sì e no un paio di volte al mese, a volte perfino meno: era proprio il fatto di essere immerso permanente nella dimensione mentale della musica che rendeva così casto il rapporto con lo strumento: troppa dimestichezza col pianoforte avrebbe disturbato, e persino deluso, quei suoi ghiribizzi dilettevoli e infiniti.

 

Tecniche di ascesi e tecniche di piacere, come si sa, facilmente coincidono. L’ipercerebralismo di Gould ricorda molto il libertino: e quell’accorgimento – lo leggiamo in de Sade? - grazie al quale, per un massimo piacere sessuale, un gaudente coltivato starà due o tre settimane senza toccar femmina, concedendosi giusto vaghi accenni di polluzione, ma solo perché così la fantasia si rinfranchi ancora, e dunque senza mai abbandonarsi del tutto: servirà infallibilmente per arrivare all’incontro galante pieno non solo di desideri particolarmente intensi, ma, soprattutto, di idee.

 

Posto che dietro tutto ciò vi fosse una qualche strambezza, il punto è che Gould seppe fare di quella nevrosi un’arma. – Sviluppò talmente la sua foresta di musica mentale, che poteva in un momento qualunque sventagliare varianti su varianti per l’esecuzione dello stesso pezzo. La sua maschera, intanto, poteva essere sorridente e sicura, come d’un killer dagli umori sardonici, come mistica, abbandonandosi in deliqui di paradisi che, attraverso il suono, rendeva almeno un po’ più accessibili agli avulsi. 

Demonismo delle varianti: anche un attore come Charles Laughton (“il più grande che abbia mai incontrato”, diceva sempre Billy Wilder) si presentava sul set con 20-30 modi diversi di recitare la scena prevista quel giorno, sciorinando talmente tanta intelligenza e gusto che per il regista ogni scelta sarebbe stata un delitto.

 

Né più né meno di Valéry, proprio per questo Gould fu accusato di essere un pianista nichilista (A. Brendel, Il velo dell'ordine). Quando invece era un interprete che suonava solo nel momento in cui la musica era stata nel suo pensiero letteralmente ricomposta (celebre il caso dell’op. 110 di Beethoven).

Era solo a quel punto, che arrivava allo strumento: tutto è già accaduto nell’invisibile e quella che resta sarà, appunto, un’esecuzione: tci sarà da essere spietati.

 


 

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